Echi dalla Silicon Valley evidenziano che si starebbero moltiplicando i casi di grandi società di Venture Capital che mettono in guardia le proprie portfolio company rispetto alla possibilità di una forte stretta nei finanziamenti. In corso una tempesta che potrebbe abbattersi sulle startup, o è solo sensazionalismo? Ma soprattutto, quali sono le opportunità – e ce ne sono molte – che il nostro Paese può cogliere in questa precisa fase storica?
Startup: una tempesta perfetta per le valutazioni?
In uno scenario globale di fine del quantitative easing da parte delle Banche centrali, di crescita dell’inflazione e conseguente aumento dei tassi di interesse, siamo entrati in un nuovo periodo storico di stretta monetaria, con minore liquidità per gli investimenti, un maggiore prezzo del denaro e un rinnovato interesse per alcune asset class (come, ad esempio, i titoli di Stato) che per anni sono risultate poco o per nulla remunerative. Questa “tempesta perfetta” sembrerebbe abbattersi anche sulla valutazione delle startup, ma è veramente così o c’è un sensazionalistico allarmismo che evidenzia e generalizza solo alcune situazioni già per loro natura “estreme”?
Da una parte, la caduta verticale dei titoli “tech” a Wall Street degli ultimi mesi sta certamente riducendo significativamente le valutazioni di quelle aziende – in particolar modo scaleup/unicorni – che fino a un anno fa (dunque anche in piena pandemia) erano viste come realtà “disruptive” e quindi finanziate, confidando nelle prospettive di crescita, come mai si era visto dalla bolla delle Dot.com in poi. Una pioggia di miliardi che era quasi sempre ben riposta dal punto di vista degli investitori, che dopo pochi anni recuperavano il tutto con gli interessi grazie ad IPO o exit molto favorevoli e basate su valutazioni nettamente al di sopra della media di mercato. Ma si sa bene quanto la borsa sia, per propria natura, iper-reattiva rispetto a sentiment, timori ed eccitazioni basati su notizie ed avvenimenti che generano incertezze, ed oggi effettivamente il mondo è incerto soprattutto su un aspetto: per quanto tempo le tensioni geo-politiche genereranno una frenata sull’economia e la crescita dei costi dell’energia.
Gli allarmi dalla Silicon Valley
L’acceleratore Y Combinator, dedicato a startup alle fasi iniziali, ha inviato una lettera aperta alle società in portafoglio con oggetto “Economic Downturn”, una sorta di decalogo per i prossimi anni che tra i vari punti affronta la questione della resilienza delle imprese nel prossimo futuro con le seguenti parole “è tua responsabilità garantire che la tua azienda sopravviva anche se non potrai raccogliere fondi per i prossimi 24 mesi”.
Al lato opposto della scala degli investitori, Sequoia Capital a fine maggio ha avvertito i founder delle proprie grandi scaleup: “non aspettatevi che una ripresa dall’attuale crisi del mercato avvenga in modo rapido”.
L’ultimo caso in ordine di tempo, riportato da Bloomberg, è il crollo subito da Tiger Global, un grande hedge fund molto attivo in ambito “Tech”: -52% in un anno, con una perdita di valore difficile da ripianare nel breve termine, in quanto gran parte del suo portafoglio si trova ora diviso a metà tra titoli in calo in borsa e investimenti in scaleup non ancora quotate e quindi fortemente “non-liquide”.
I dati di economia reale degli investimenti
D’altra parte, però, queste tendenze sui mercati finanziari non trovano una conferma fuori dalla borsa quando guardiamo dati di economia reale degli investimenti, come può essere AngelList che ha una mole di migliaia di startup ad ogni stadio di sviluppo in portafoglio e ha pubblicato di recente una nuova ricerca secondo la quale le valutazioni pre-money delle startup pre-seed e seed sono aumentate nel Q1 2022 rispetto al Q4 2021. Emerge, altresì, una riduzione in percentuale dei round “Seed” a favore di quelli “Pre-seed” che, proporzionalmente, sono aumentati di più. Scendono leggermente, invece, i round “Series A”, che però arrivano da un biennio di crescita accelerata come non si era mai visto prima, grazie alla spinta verso l’economia digitale prodotta dalla pandemia, e comunque a valle di un trend di crescita più moderata ma stabile che dura da un quindicennio.
Quindi, nonostante gli indicatori finanziari dell’economia “macro” (o consolidata) sembrino volgere al peggio, molti dati mostrano che i round delle startup “early stage” continuano a crescere e che i fondi raccolgono in modo crescente dai propri sottoscrittori.
Di conseguenza si può affermare che al momento i trend di Borsa, le tensioni internazionali e la stretta monetaria hanno poca o nessuna influenza nelle decisioni di investimento relative alle startup appena nate. Le prospettive dell’innovazione e della trasformazione dei settori industriali non rallentano, e d’altra parte non può che essere così: se la ricerca avanza (e lo fa sempre più velocemente e con maggiore efficacia), la tecnologia ha sempre maggiori prospettive di generare efficientamenti e miglioramenti sociali ed economici.
L’Europa non è l’America (men che meno l’Italia)
Bisogna, inoltre , fare una distinzione tra la realtà statunitensi, gli ecosistemi europei e quelli di Paesi con un mercato del capitale di rischio non ancora maturo, come è il caso dell’Italia.
La “corsa” all’investimento Seed/Early Stage potrebbe essere il sintomo di una strategia già in atto da parte degli investitori americani, che preferiscono investire oggi a condizioni vantaggiose in startup molto piccole (ma lontane ancora anni da possibili IPO o exit) andando a spostare finanza invece da quelle realtà diventate ormai talmente grandi da avvertire gli stessi effetti delle storiche società quotate.
In Europa, come sottolineato da Francesco Bertolino su un recente articolo di Milano Finanza, anche gran parte delle quotazioni tech concluse nel 2021 viaggiano ben al di sotto del prezzo di IPO (con casi record negativi come la Fintech Wise a -53% in un anno o l’eCommerce di auto online Cazoo addirittura crollata del -76%), replicando di fatto quello che stiamo vedendo oltreoceano.
Cosa succede in Italia
Il nostro ecosistema soffre da sempre di “nanismo” per quando riguarda i round di finanziamento di ogni fase, ne sono indice le diverse startup con fondatori italiani che hanno raggiunto la qualifica di “Unicorno” negli ultimi anni ma che hanno portato la sede fuori dai confini, principalmente proprio per motivazioni legate alla reperibilità di investimenti a condizioni competitive ancor più che per la maggior “scalabilità” dei mercati internazionali.
I founder delle startup pre-seed e seed che si affacciano solo di recente sul mercato alla ricerca di finanziamenti, al netto di una valutazione della bontà progettuale, non possono ricevere un “No” o una valutazione significativamente più bassa di quelle passate come risposta da Business Angels o Fondi di VC, essenzialmente per due motivi: prima di tutto non è vero che a livello globale tutte le startup soffrono, anzi: per le piccolissime è il momento di continuare la ricerca anche in questo momento di flessione dei mercati in un’ottica anti-ciclica. Ricerca che dovrebbe essere favorita attraverso l’introduzione di strumenti di finanziamento standard (come ad esempio gli investimenti in convertendo, mutuando contratti snelli come il SAFE ed il KISS adottati all’estero) che facilitino l’accesso ai fondi senza lunghe due diligence o estenuanti trattative.
Il secondo motivo, è che l’Italia è un Paese con un ampissimo numero di startup early stage rispetto a quello delle scaleup: un founder della prima categoria non può sentirsi rispondere che le valutazioni sono destinate a scendere ancora, quando invece i numeri globali le vedono al rialzo.
Le opportunità che l’Italia può cogliere in questa fase storica
In tutti i Paesi con un ecosistema di un livello inferiore a quello dei “campioni” USA, UK e Israele, il trend è quello di crescita, e tutti gli attori devono impegnarsi per fare in modo che anche l’Italia segua questa traiettoria: abbiamo paradossalmente la straordinaria opportunità di livellare il campo di gioco con gli altri Paesi aumentando il taglio medio dei round più piccoli in un momento di “pausa” degli investimenti e delle IPO delle realtà più mature.
In tal senso sarebbe opportuno se il legislatore, le organizzazioni di market making di natura statale, e gli stakeholder privati, lavorassero più attivamente per colmare un gap nazionale che inizia ad apparire molto più legato alla qualità che non alla quantità di risorse finanziarie:
- gli incentivi fiscali per gli investitori privati dovrebbero essere concessi in particolar modo per investimenti di minoranza, eventualmente aggiungendo una percentuale di detraibilità in caso di perdita e conseguente minusvalenza, ed includendo anche il convertendo nell’incentivazione (oggi erroneamente assimilato al convertibile);
- il regolamento di Banca d’Italia dovrebbe snellire di molto l’attività degli OICR sottosoglia, consentendo ad un fondo di Venture Capital di chiudere operazioni in quattro settimane anziché in quattro mesi, ma anche fissando una soglia di dotazione (10 milioni? 5 milioni?) sotto la quale dovrebbero poter operare delle società-sindacato di investimento, magari gestite da soggetti qualificati, senza essere portate sotto degli oneri di vigilanza insostenibili se non si gestiscono molti milioni;
- l’attività di “infrastrutturazione” svolta da CDP Venture Capital dovrebbe estendere la spinta alla creazione di acceleratori anche al perimetro dei venture builder e degli startup studio, e a creare maggiori concentrazioni territoriali, mentre l’attività di Fondo di Fondi dovrebbe concentrarsi maggiormente su attrarre grandi VC internazionali e a far nascere nel Paese nuovi VC dedicati a stage pre-seed e seed fondati da una nuova generazione di tech founders in grado di comprendere il potenziale trasformativo delle nuove tecnologie;
- le Università, infine, andrebbero incentivate ad affiancarsi ai numerosi pre-acceleratori inserendo corsi di imprenditoria tech già fin dalle lauree triennali nella propria offerta didattica, per dotare tutti gli studenti della “cassetta degli attrezzi” e della mentalità dell’imprenditore, anziché concentrarsi esclusivamente su dottorandi e ricercatori per valorizzare la ricerca come se fosse la sola missione degli atenei.
Conclusioni
Di tante voci allarmistiche e chiaramente esagerate su uno “scoppio della bolla”, che ricorrono ogni volta che un fondo va male, la borsa dei tecnologici si flette, o un unicorno fallisce, è vera una sola cosa, oggi come dieci anni fa: abbiamo un’opportunità incredibile nel rendere più semplice ai nuovi imprenditori italiani la possibilità di “provarci”, e quella di far produrre valore all’immensa ricchezza privata del Paese che fatica ad entrare in contatto.