lo scenario

Startup, quanto lavoro ancora da fare in Italia: la priorità nel 2023 è un intervento politico

Crescono gli investimenti in venture capital verso startup italiane, tuttavia nel nostro Paese persistono contesti e fenomeni che frenano l’evoluzione dell’ecosistema: un panorama dato principalmente da un problema culturale, per cui è necessario un intervento decisivo da parte del Governo

Pubblicato il 05 Gen 2023

Gianmarco Carnovale

Serial tech-entrepreneur

startup

La crescita degli investimenti in venture capital verso startup italiane non si arresta, con i numeri ufficiali che mostrano un 2022 chiudersi infrangendo la soglia psicologica dei 2 miliardi di euro. Ci si domanda se sia davvero l’uscita dal tunnel per il Bel Paese.

A ben guardare, si può dire che quello che sta succedendo nelle cifre è principalmente l’effetto combinato dei pochissimi maxiround conclusi su scaleup, in un numero che si conta su due mani. Operazioni benvenute e da accogliere con un “finalmente” liberatorio, ma che si basano sull’intercettazione di quelle pochissime imprese che sono sopravvissute all’attraversamento palude del primo decennio dell’ecosistema italiano, ecosistema la cui tossicità è stato coperta da una retorica, da una mancanza di cultura e da uno startup theatre che non accennano ad estinguersi.

Si chiude un anno da record per le startup: ecco perché il 2023 sarà decisivo

Startup in Italia, lo scenario

Potremmo dire che questi maxiround si siano conclusi su dei sopravvissuti, su società che ce l’hanno fatta nonostante il paese e certo hanno il gran merito di ciò, ma che in qualsiasi altra geografia occidentale sarebbero giunte a queste tappe ben prima ed oggi sarebbero decisamente più grandi e solide. E soprattutto molto più numerose, come dimostrano i numeri di economie come Francia e Germania – a noi del tutto simili per quadro normativo basato su civil law e per sistema socio economico – che continuano a tenere un livello dieci volte superiore a quello dell’Italia perché hanno imparato a sostenere le nuove imprese tecnologiche in ogni stadio del loro cammino, rimettendo in discussione continuamente tutto ciò che potrebbe funzionare meglio.

Perché non c’è evoluzione

Viceversa, in Italia non si vede segno di una evoluzione ampia, concreta e netta dell’ecosistema, in chiave di sostegno sistemico alle nuove iniziative tech: né sul fronte del capitale privato, né sul fronte della qualità del lavoro degli operatori intermedi, né sul fronte dell’attività legislativa o dell’azione delle pubbliche amministrazioni, né tantomeno nel dibattito pubblico tra stakeholder ed organizzazioni che continuano ad autoincensarsi mentre chiedono semplicemente più soldi allo Stato.

Il capitale privato del Paese si sposta a fatica e male, distanziandosi dalle pratiche internazionali sia nei comportamenti che nella comunicazione: i casual investor che operano nel crowdfunding non hanno ancora compreso la differenza tra imprese scalabili e imprese lineari, né le piattaforme di raccolta fanno niente per spiegarglielo dato che la normativa non lo impone, e quindi buttano denaro in imprese con business chiaramente lineare che si propongono in raccolta con valutazioni da impresa scalabile e proiezioni che non rispetteranno mai. Gli angel professionali, viceversa, che a parole hanno compreso le dinamiche delle leggi di potenza ed i criteri per distinguere una impresa ad alto potenziale, fanno il contrario: selezionano imprese scalabili ma tentano di forzare la trattativa imponendo valutazioni da impresa lineare, per prendersene la fetta più grande possibile, e il più delle volte cercando di spostarsi verso l’ingresso nelle fasi post-ricavi.

Lavoro simile fanno i fondi di Venture Capital storici, che a parole dicono di fare round di serie A ma nei fatti sottoscrivono tagli di investimento tipici del seed internazionale, e richiedendo una maturità da startup che altrove starebbe raccogliendo un serie B. In alcune delle occasioni in cui si arriva a parlare di round di serie B, poi, si giunge all’apoteosi: pur di sparare comunicati stampa gloriosi, ripresi da giornali che non hanno la minima cognizione per valutare quello che rilanciano, si definiscono ‘serie B’ dei finanziamenti che sono per due terzi a debito, ed in cui i founder sono ridotti a percentuali di capitale vicine alla singola cifra. In pratica tutta la filiera del capitale di rischio nostrana, con rarissime eccezioni, continua a comportarsi come se si occupasse di Private Equity di piccolissimo e piccolo taglio, con una dinamica definibile in “mi prendo la fetta più grande possibile di una impresa avviata che crescerà poco”, anziché operare da Venture Capital, ovvero “metto carburante in una iniziativa ad altissimo rischio ed altissimo potenziale per avere un pezzetto dell’aumento del valore nel caso che la possibile crescita si concretizzi”. La cultura dell’affare, la mentalità del “quante quote prendo”, del voler controllare e limitare i founder con termini contrattuali di vincolo sulla governance, ossia del credere che tutto questo possa limitare il rischio in un mestiere che si basa invece sull’accettazione del rischio pur di massimizzare l’upside, continua a dettare la linea.

Il nodo degli intermediari

Lo stesso grado di problematicità, però, lo si riscontra sugli operatori intermedi tra capitale e impresa: quella selva di presunti incubatori, acceleratori, advisor, che continuano a dilagare nel Paese promuovendo una comunicazione in cui vendono il sogno: “diventa imprenditore”, “realizza il tuo progetto”, “incontra gli investitori”, “ti portiamo da idea a impresa in sette settimane” e dichiarazioni simili, a fronte delle quali poi il founder sprovveduto si ritrova sempre a sottoscrivere vincolanti contratti di consulenza in cui le spese sono una certezza ed il sogno resta tale, rimangono una componente fondamentale della palude. Ma in questo caso la colpa del dilagare di questi piccoli frodatori seriali di spicci e di speculatori sui sogni è da attribuirsi all’assenza del sistema scolastico e di quello universitario dal fornire quelle soft skill utili ad evitare trappole: la scuola esce raramente dal seminato se non c’è un’altra istituzione che si attiva – come avviene per esempio da anni, nella Regione Lazio, con il programma ‘Startupper sui banchi di scuola’ che coinvolge centinaia di liceali – e l’Università di Stato non ha ormai chiaramente alcun interesse ad occuparsi di altro che di auto perpetrarsi, concentrando energie su dottorandi e ricercatori da incanalare nella carriera universitaria, e su generare spin-off da ricerca che non servono altro che a raccogliere finanziamenti pubblici da incanalare verso ateneo e titolari di cattedra.

Il ruolo della PA

Infine, la macchina della pubblica amministrazione: è composta da persone che non vivono che di regolamenti, compliance, cavilli e burocratismi e spesso vivono male l’innovazione perché cambia lo status quo. Questa macchina con il tempo è riuscita a creare prassi perverse anche da applicarsi all’eccezione legislativa del registro delle startup innovative, che era stato introdotto per avere un insieme di deroghe con cui sottrarre i nuovi imprenditori alla follia burocratica di un sistema che iper regolamenta qualsiasi iniziativa e settore. Malata, poi, è la logica dei campanili perfino tra le diverse amministrazioni di Stato, per cui in modo del tutto scollegato da una visione di insieme e da una strategia si moltiplicano acceleratori, incubatori, hub di matrice pubblica, che senza alcun know-how né alcun kpi che ne determini l’obiettivo di impatto si mettono a fare concorrenza ad acceleratori ed incubatori privati, in una follia di dirigismo pubblico dell’economia dell’innovazione.

Il caso di CDP Venture Capital

Ovvio che non sia tutto da buttare: esiste il poderoso lavoro che sta facendo CDP Venture Capital sia nell’investire nelle forme corrette che nel rafforzare la parte sana dell’ecosistema e nell’attrarre player stranieri seguendo logiche di mercato; esistono le eccezioni tra gli investitori, tra gli operatori intermedi, e perfino tra pubbliche amministrazioni che hanno pienamente fatta propria la mentalità e le metodologie che servono per supportare la nuova impresa e – di fatto – continuare a dare un futuro alle prospettive della creazione di valore e nella competitività del Paese nei nuovi settori industriali. Ma sono tutti soggetti che operano a ranghi ridotti, affaticati, circondati da chi lavora loro contro, per cultura avversa quando proprio per interesse contrario.

Le possibili soluzioni

Capitale, operatori intermedi, macchina amministrativa: la maggioranza degli attori in questi tre ambiti continuano a resistere a qualsiasi pressione verso un ribaltamento di logica che faccia abbandonare l’estrazione di valore dalle nuove imprese in favore di un apporto di valore verso le stesse, e soprattutto in favore di una logica di gioco di squadra in cui ciascuno operi bene nel proprio ruolo in favore del risultato finale. Tutte queste categorie di attori dovrebbero agire all’unisono come un grande aeroporto in cui si creino le migliori condizioni possibili per favorire il decollo in sicurezza di aeroplani che spicchino il volo verso mete lontane, mentre sembrano agire come gli elementi di una palude che cerca di ostacolare, inglobare, affondare, parassitare qualsiasi forma di vita che vi passi attraverso.

La priorità: un intervento politico

Il problema del Paese, manifestato da questi soggetti, è chiaramente culturale, ed è più che mai per eradicare il problema culturale che è necessario ed urgente che il Legislatore intervenga: c’è un nuovo Governo in carica, composto da soggetti come Giorgia Meloni, Adolfo Urso, Giovanbattista Fazzolari, Guido Crosetto, che si dichiarano vicini agli imprenditori, dicono essere più che mai a favore dell’iniziativa privata e che si trovano a fare i conti con ristrettezze di bilancio e contrazione dell’economia: bene, niente come una riforma complessiva della cornice legislativa all’interno di cui si muovono le startup, fatta dalle definizioni dei soggetti e dei rispettivi ruoli e limiti, dagli investimenti privati in capitale di rischio, dall’educazione alla cultura d’impresa, dalla deregolamentazione ed il sandboxing per chi innova, potrebbero eliminare la zavorra e le scorie che uccidono quotidianamente le nuove imprese tecnologiche italiane, che le convincono ad emigrare all’estero per poter perseguire quel diritto ad esistere ed aggiungere valore sociale ed economico che ogni altra nazione evoluta del mondo riconosce loro.

Sembra un ossimoro che possa essere la politica a risolvere un problema sistemico come quello italiano, ma nei fatti è solo l’iniziativa politica che può determinare una riorganizzazione complessiva dell’ecosistema italiano con nuove norme primarie che vietino comportamenti estrattivi, ostacoli burocratici, millantato credito, ed incasellino forzatamente nel proprio ruolo le varie caselle del mosaico che dovrebbe comporre un terreno di nascita e crescita per nuovi imprenditori.

Non servono altri soldi, non serve allocazione di risorse, non serve un braccio di ferro con la Ragioneria dello Stato per iniziative legislative che concretizzino il potenziale della ricerca, del talento, della professionalità, dei nuovi imprenditori italiani: basta solo un testo unico della nuova impresa, che metta ordine e corregga norme ed incentivi esistenti, e che vada ad ovviare al gap culturale definendo attori e regole della partita della nuova economia in modo ben circoscritto.

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