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“Startup sounding”, italiani maestri mistificatori: ecco tutti i termini di cui abusiamo

Per chi conosce davvero l’ecosistema italiano – sia che si tratti di italiani che hanno lavorato fuori e rientrano, o di operatori stranieri che visitano il Paese in cerca di opportunità – lo scollegamento tra buzzword e realtà appare immediato. Gli esempi più lampanti e cosa serve per diventare davvero una startup nation

Pubblicato il 30 Ago 2021

Gianmarco Carnovale

Serial tech-entrepreneur

Ecosistema startup

Giunti a quasi dieci anni dall’emanazione della legge che ha istituito il regime di favore per le startup innovative, l’Italia continua ad arrancare e perdere terreno nei confronti delle altre nazioni industrializzate sempre più proattive verso la creazione di nuove imprese tecnologiche. Ma allo stesso tempo nel Paese ci si continua a riempire la bocca con una narrativa che si sviluppa attraverso millantati protagonismi, metriche della vanità, e soprattutto abuso di termini e buzzword. C’è un problema di scollegamento tra parole e azioni, oltre che di realtà. Vediamone alcuni esempi.

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Falsificazione, italiani da vittime ad “abusatori”

Una delle grandi battaglie che da tempo viene sostenuta dalle istituzioni italiane e dalle associazioni di produttori è la lotta al dilagante “italian sounding” nel mondo: quell’abuso di mercato nel commercializzare prodotti fintamente italiani, che passa attraverso l’impiego di nomi simili a quelli originali. È il caso del “parmesan”, la “mudtzarella”, il “proscuitto”, prodotti che prendono a prestito il “suono” italiano ma con metodologie e disciplinari di produzione completamente differenti che ovviamente si ribaltano sulle caratteristiche del prodotto finale, ben lontane da ciò che imitano.

Ora, per quanto quindi noi italiani siamo vittime di questa concorrenza sleale, mi sono fatto l’idea che siamo diventati dei convinti falsificatori quando si va ad analizzare quel settore che, di volta in volta, è definibile alternativamente come economia dell’innovazione, filiera del venture business, o ecosistema startup. In questo settore i falsificatori sono gli italiani, che truffano abilmente la stampa, i nuovi imprenditori e perfino i governanti con lo “startup sounding”: uso di termini rubati dall’uso che se ne fa negli ecosistemi internazionali ed appioppati a metodologie, schemi, modus operandi che poco hanno a che vedere con quelli originali.

Ecco, allora, gli esempi.

Le “startup” (innovative?)

Le “startup”: termine che nel mondo è prerogativa di imprese tecnologiche ad alto potenziale, ad ambizione globale, quindi implicitamente basate su delle caratteristiche di output, in Italia sono confuse con le “start-up innovative” definite secondo i requisiti di legge (cioè di input) per accedere ad un registro che offre delle condizioni di favore. Già le analisi quantitative di questo dato appaiono ridicolmente avulse dalla percezione della realtà internazionale: se l’Italia avesse davvero oltre 10.000 startup se ne parlerebbe come la nuova Startup Nation nel mondo, oscurando Israele. Ma le dotte analisi circa il loro fatturato medio, su dislocazione geografica, numero degli addetti, sono sostanziali e totali prese in giro, dato che la maggior parte delle start-up innovative italiane sono società qualsiasi – PMI che usano tecnologia anziché farne, che hanno modelli di ricavo tradizionali, che hanno una ambizione di mercato locale e senza alcun elemento di unicità competitiva – che vengono supportate da consulenti compiacenti per mostrare i requisiti (artificiosamente acquisiti, ma spesso del tutto simulati) per accedere al registro. Imprese qualsiasi “ma digitali”, rendono ridicola qualsiasi analisi quali-quantitativa che miri a rappresentare lo stato delle “startup italiane”. Nonostante ciò, da quasi dieci anni ascoltiamo nei convegni e leggiamo periodicamente queste narrazioni basate su dati neanche lontanamente rappresentativi.

La narrazione sugli investimenti in capitale di rischio

Passiamo alle periodiche narrazioni sui numeri degli investimenti in capitale di rischio: nel mondo gli “investimenti in startup” sono iniezioni di capitale di rischio (in equity o quasi-equity), volte ad acquisire partecipazioni minoritarie, da parte di soggetti che di mestiere fanno gli investitori, senza ingerenze nella gestione. I calcoli sull’andamento degli investimenti, su base trimestrale e annuale, vengono fatti sempre e solo da piattaforme internazionali ‘terze’ come Dealroom, Pitchbook, Crunchbase, che raccolgono queste informazioni direttamente dagli investitori e le aggregano correttamente con modalità scientifiche. In Italia, invece, gli annunci sull’andamento degli investimenti vengono fatti e pubblicati da magazine, associazioni e consulenti locali, ciascuno definendo autoreferenzialmente il perimetro: chi includendo il crowdfunding, chi contando gli angel e chi solo i fondi, chi conteggiando solo gli investimenti della propria associazione e chi includendo tutti ma non gli investitori esteri; spesso mischiando in un unico calderone capitale e finanziamenti a debito con acquisizioni di partecipazioni maggioritarie, in startup vere e/o presunte, in un delirio di numeri sparati a caso volti a titolare la cifra più grossa a seconda del risultato che si sta cercando di ottenere: clickbait, mostrarsi parte di un settore “che cresce”, attirare sottoscrittori verso fondi farlocchi con effetto FOMO, accreditarsi come consulting di riferimento, eccetera.

Alla fiera del millantato credito

Andando a guardare le autodefinizioni delle tipologie di investitori, entriamo in una specie di fiera del millantato credito.

Acceleratori e incubatori

Gli acceleratori e gli incubatori, nel mondo sono degli operatori di due diverse categorie che svolgono attività ben definite e differenziate. In Italia questi nomi sono intesi come intercambiabili tra loro: incubatori che si dichiarano acceleratori senza esserlo mai stato sono la norma, spesso perfino appellandosi come “i più importanti d’Italia” in comunicati stampa che vengono rilanciati da giornalisti del tutto privi di senso critico. Ma soprattutto questi termini vengono abusati come specchietto per le allodole da venditori di servizi di consulenza che si pubblicizzano come tali, che rilasciano interviste e si promuovono ovunque con il solo fine di crearsi una sorta di “social endorsement” finalizzato ad attirare nella propria rete dei neoimprenditori sprovveduti, a cui iniziano a togliere (molti) soldi per consulenze volte ad avvicinarsi ad una presentazione ad investitori per raccogliere capitali; capitali che non arrivano mai, tra ritardi e pretesti. Uno scenario che ricorda molto quello dei guaritori che vendevano pozioni miracolose nelle fiere di paese del far west, e che in tempi moderni verrebbero denunciati per esercizio abusivo della professione medica. È sorprendente come vengano lasciati liberi di truffare la gente approfittando della scarsa conoscenza del settore. E anche qui, è sorprendente la complicità dei media.

I Business Angel

I Business Angel, in tutto il mondo civile sono individui ricchi (high net worth) che sono in grado di intervenire – similmente ai fondi seed – nelle fasi pre-ricavi della “idea validation” e “business model validation”, quasi sempre in cordata tra loro, in cambio di partecipazioni fortemente minoritarie: mai più del 10% al pre-seed e del 20% al seed, ma molto più comunemente senza una percentuale fissata dato che è ormai preponderante la logica del convertendo, rinviando la valutazione ed il dimensionamento della partecipazione ad obiettivi successivi.
Se un cosiddetto round seed all’estero ha un importo che oscilla tra i 500 mila euro e i 3 milioni e serve a conseguire i primi ricavi, purtroppo in Italia avviene dopo i primi ricavi per un importo che quasi mai raggiunge il milione, e spesso perfino a fronte della maggioranza del capitale. Di fatto diventa una operazione di micro private equity che viene raccontata come “seed” abusando completamente del termine. E ancor più grave, mentre all’estero questi investitori apportano capitale di rischio e competenze, in Italia spesso vincolano l’erogazione di un investimento ad una onerosa consulenza, facendosi restituire una rilevante parte dei soldi e legando a sé i malcapitati con contratti capestro.

Gli stessi fondi di venture capital italiani definiscono i diversi round (A, B, C…) non per effettivo stage di maturazione della startup ma per dimensione dell’investimento, e intendendo i loro interventi di almeno un ordine di grandezza inferiore, nella taglia, rispetto a quanto di prassi nella nomenclatura internazionale: se nel Regno Unito un Round A nel 2021 è ormai un intervento quasi standardizzato come un investimento di 10 milioni a 60-70 milioni di valutazione pre-money, in Italia vediamo annunci di “Round A” da 2-3 milioni in cui il VC si porta via il 30% del capitale e soprattutto legandolo dei diritti di governance assoluti, imponendo quindi dimensioni di investimento e rigidità tali da essere del tutto inadeguate a spingere la crescita della startup investita, che di fatto diventa progressivamente di proprietà del VC non appena necessiterà di altri fondi (cioè presto): sono note diverse blasonatissime startup, in portfolio di ancora più blasonati fondi italiani, detenute da questi per quasi la totalità del capitale. Chiamare “Venture Capital” operazioni simili, in paesi con una minimamente decente cultura del settore, sarebbe considerato da ridere. Questo è private equity di piccolo taglio, e ai soggetti che operano in tal modo dovrebbe essere vietato qualificarsi come “Fondi di Venture Capital”.

Conclusioni

Di fatto l’Italia, in un decennio di “ecosistema startup”, si è sviluppata come una enorme bolla di bugie all’interno della quale operano sì anche alcuni operatori seri in numero crescente, che cercano di collegarsi con altri operatori internazionali e svolgere adeguatamente questo lavoro, ma sommersi da una narrativa di arraffoni, millantatori ed improvvisatori che presidiano militarmente la scena mediatica, approfittando della superficialità dei media e delle istituzioni, tentando di dare una rappresentazione falsata del settore per mantenere il Paese all’interno di un “modello italiano” autoreferenziale che diventa una riserva privata per questi soggetti.

Volendo fare una metafora, l’ecosistema startup italiano appare come una sorta di mondo nascosto in cui si è creata una biodiversità scollegata da quella del resto del mondo grazie all’isolamento, ma in cui alcuni membri di questa biodiversità fanno anche di tutto per tenere in piedi delle palizzate che evitino un confronto con il mondo reale e – soprattutto – una sana competizione nel loro privatissimo orticello. Ma giunti al 2021 e all’accelerazione data dalla pandemia, e al crescente numero di startup italiane che sono fuggite all’estero diventando unicorni grazie all’ecosistema in cui si sono collocati, è ormai tempo di fare i conti con l’oggettiva realtà: la completa assenza dell’Italia dalla scena degli unicorni – che non sono animali mitologici ma nuove grandi imprese tecnologiche, ovvero grandi datori di lavoro nel terziario avanzato – è drammaticamente di fronte agli occhi di tutti.

Io non so se sia il caso di regolamentare molto più in profondità l’uso delle definizioni del settore per evitare che si millanti di essere “startup”, “business angel”, “incubatori”, “venture capitalist” e via dicendo senza operare come tali, ma se esistesse ancora quel reato di abuso di credulità popolare depenalizzato alcuni fa ci sarebbe molto lavoro per le procure della penisola. La cosa che so è che, per allevare unicorni e sperare di continuare a dare al Paese un futuro industriale vero, oltre a proseguire nelle attività di retroguardia in difesa di aziende decotte che vengono tenute a galla sempre più dalla mano pubblica, è necessario darsi una svegliata ed iniziare a seguire davvero tutte le metodologie che vengono usate nei paesi in cui si è costruito un vero ecosistema di supporto per le startup che stia funzionando e creando nuovi posti di lavoro.

E smettere di cianciare di “modello italiano”.

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