Un caso, nel mondo startup, esploso in questi giorni la dice lunga su quanto siano vaghe le regole a tutela di questo mercato e sui controlli contro il pericolo di truffe. Un problema che incide sul nanismo del venture capital italiano, poiché distrugge la fiducia del sistema.
Si tratta di una startup che dichiara di fare un chatbot basato su Intelligenza Artificiale e che si presenta in fundraising sul portale di crowdfunding Mamacrowd con informazioni agli investitori quantomeno dubbie.
La vicenda è ora sotto valutazione di Mamacrowd, ma ciò che conta è che dovrebbe essere il “caso” su cui riflettere per iniziare a costruire un approccio serio al venture investing.
Un approccio basato su buone pratiche, talento, innovazione reale e soprattutto conoscenza. E accantonare finalmente uno pseudo-ecosistema che – complici norme scritte in modo confuso e frettoloso – si è basato su un abuso di termini a fini di marketing scollegato dalle basi, che ormai tutti iniziano a definire “fuffa”.
Il venture capital “all’italiana”
Quando il cantiere di un edificio si progetta male e non si apportano correttivi velocemente, non solo lo sviluppo del cantiere diventa faticoso ma il rischio di crollo diventa maggiore ogni giorno che si procede. Questo è del tutto evidente per il cantiere del comparto del venture business, che ormai in quasi tutto il mondo costituisce lo scheletro portante dell’economia dell’innovazione. Quasi in tutto il mondo tranne che in Italia, dove il settore non cresce e scricchiola sempre più pesantemente, mentre altrove decolla con velocità crescente.
La differenza sostanziale tra il resto del mondo e l’Italia è da cercarsi nell’umiltà con cui i tanti paesi che hanno voluto imitare la Silicon Valley hanno studiato e replicato le pratiche consolidate che la fanno funzionare, approccio che non regge al confronto impietoso con la presunzione e sciatteria con cui il nostro sistema paese ha copiato solo l’uso di alcuni termini ed adottato alcune pose per millantare ad usum populi la nascita di un sistema “all’italiana” che con i veri ecosistemi del venture investing non è paragonabile. Non lo è nello stesso modo in cui possedere l’estratto di un vero conto corrente con liquidità all’attivo non è paragonabile all’avere le finte copie di estratti conto notoriamente inventate da Tanzi per falsificare i bilanci di Parmalat: la sola cosa in comune tra le due è la carta delle rappresentazioni con il lessico utilizzato, ma l’operatività sottostante di un conto bancario ed il denaro reale non ci sono.
Certo, nel tempo sono stati creati numerosi puntelli per sostenere il cantiere e per fargli arrivare liquidità, alcuni anche ben pensati, e svariati operatori nel paese operano bene o in buona fede e coscientemente, spesso cercando di conciliare il confusissimo quadro di regole italiane con le pratiche internazionali che altrove consentono al venture business di funzionare e alle startup di avere successo. Ma il problema è nelle basi di come è stato (non) progettato il nascente sistema, con alcune delle definizioni essenziali scritte in modo che fantasioso è dire poco, e con molte altre definizioni lasciate libere e a disposizione della indiscutibile arte millantatoria dimostrata fin troppo spesso dagli italiani, che godono poi sempre di un apparato che regolamenta ma giammai controlla.
Le parole sono importanti
E’ così che fin troppi soggetti hanno la libertà di giocare con le parole e con la comunicazione, alle volte per fare “overselling” ed altre per circuire clienti e potenziali ignari investitori, con questi ultimi che si sentono chiamati a partecipare a quella che viene rappresentata come una nuova corsa all’oro ma che non hanno gli strumenti per comprendere. Se non si è all’interno di questo mondo è quasi impossibile capire bene chi dica cosa e se sia vero o meno, vuoi quando si gioca con le sfumature mentre si nominano startup (che sono ben altra cosa dalle “start-up innovative” definite dalla legge o dal generico start-up di azienda), vuoi quando si parla di incubatori (o di “incubatori certificati”), quando si parla di scaleup, quando si parla di fundraising e finanziamenti (capitale, prestiti, o finanza agevolata?), di acceleratori, quando si parla di venture, investitori istituzionali o professionali o casual o ancora di mentor e di advisor.
Chiariamoci: nel mondo spesso questi termini non sono definiti per legge, ma la grande differenza è che altrove si conoscono le lingue, si approfondiscono i concetti prima di usare una parola a sproposito (soprattutto tra giornalisti), non si alimenta un circo mediatico vuoto con l’interesse di mangiarsi più soldi possibile su consulenze/intermediazioni/commissioni e vendita di pale e picconi, e non si sguazza in un sistema relazionale per cui tutti conoscono gli abusi e chi li commette ma si fanno i fatti propri perché c’è sempre qualcuno amico di qualcun altro con cui è preferibile non mettersi di traverso, approccio che altrove sarebbe da definire omertoso.
Il mondo non è come l’Italia, in sintesi, e in Italia per introdurre un comparto economico nuovo che pretenda di far girare un discreto volume di soldi è fondamentale fissare per legge definizioni, significati, metodologie consentite, pratiche vietate; e soprattutto il legislatore deve controllare anziché voltarsi dall’altra parte o perfino cavalcare il marketing vuoto sfruttando le vanity metrics di un fallimento raccontandone alcune cifre come un presunto successo per fare bella figura.
Quasi tutto nell’attuazione della policy sulle “start-up innovative” voluta dal governo Monti grida vendetta per violazione delle buone pratiche e per rappresentazione falsificata della realtà, a partire dal dichiarare che in Italia ci sarebbero 11 mila startup grazie alla normativa – e su queste impegnare perfino risorse per fare analisi e statistiche per alimentare la falsificazione mediatica – quando poi basta notare che meno di mille tra queste hanno davvero raccolto investimenti in capitale di rischio e che le altre si sono semplicemente inserite in un registro a maglie larghe (e confuse) per poter godere di incentivi e privilegi immeritati grazie a commercialisti specializzati nel travisare perfino negozi di abiti usati e approfittando di alcune Camere di Commercio particolarmente morbide rispetto ad altre nel processo di ammissione al Registro Speciale.
Siamo in uno scenario in cui il Ministero dello Sviluppo non ha vigilato per anni sull’attuazione di una policy in cui l’Italia è stata la sola nazione al mondo ad avventurarsi nel definire per legge cosa sia una startup, peraltro fissando criteri che niente hanno a che fare con la riconoscibilità di una startup in qualsiasi altro luogo al mondo; siamo un paese in cui la Consob si è vantata di aver lanciato la prima normativa al mondo sull’Equity Crowdfunding aperta alle ignare casalinghe che possono perderci i risparmi (cosa che nemmeno negli USA avviene), in cui non si controlla lo stato della tecnologia se una presunta startup chiede soldi per realizzare il teletrasporto dichiarandosi una scaleup con decine di clienti quando invece fattura meno di un idraulico ed i clienti menzionati sono tutti ignari, e in cui la normativa che viene poi inquinata dal mischiare startup scalabili con PMI qualsiasi e quindi profili di rischio totalmente differenti tra loro, ma tanto c’è il questionario con cui il sottoscrittore afferma di essere consapevole e si assume i rischi.
Tutte le contraddizioni del sistema Italia
Siamo lo Stato in cui Banca d’Italia fa di tutto per mantenere rigidissime le regole sulla nascita di fondi di Venture Capital e regolarne i processi rendendoli troppo onerosi perché non deve sfuggirle uno spillo, ma allo stesso tempo non verifica se gli investimenti non vengano scelti in modo relazionale ed in conflitto di interesse o se parte dei fondi non vengano poi destinati a far pagare alle startup spese e persone che dovrebbero stare in capo al fondo.
Questa è l’Italia: un paese che arriva per ultimo in un settore altrove consolidato da decenni altrove, e che invece di studiare e copiare si mette a reinventare la ruota e vantarsi di essere arrivato prima, perché gli operatori media ignoranti ormai copiano solo i comunicati stampa mentre quelli che svolgono il proprio mestiere vengono marginalizzati.
Siamo un paese che legifera male, attento ad aspetti astrattamente formali senza che nessuno svolga alcun tipo di controllo sull’attività sostanziale sottostante, ed in cui gli attori nel frattempo si interessano solo di rilasciare interviste e partecipare a conferenze in cui si danno tutti grandi pacche sulle spalle e possibilmente si raccomandano con gli organizzatori di non invitare gente che faccia domande od osservazioni scomode perché sono i “soliti disfattisti criticoni”.
Vogliamo iniziare a fare sul serio e buttare l’acqua sporca salvando il bambino – perché qualcosa di incidentalmente sano c’è, tra gli operatori intermedi e le startup nate in questi anni – o aspettiamo che crolli inesorabilmente tutto per colpa di fuffa che non può essere spacciata per calcestruzzo ancora a lungo? Le startup italiane non decolleranno con la sola immissione di maggior liquidità nel venture capital, è necessario e urgente riformare e regolamentare molto meglio tutto il settore.