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Startup, tutte le patologie del sistema normativo italiano: il confronto con la Germania

Su 70 unicorni europei, l’Italia non ne conta neanche uno. A cosa è dovuto questo gap? Quali sono le anomalie che impediscono il decollo delle aziende tecnologiche made in Italy? Facciamo il punto sugli aspetti disfunzionali del nostro sistema normativo

Pubblicato il 06 Lug 2021

Francesco Vito Tassone

imprenditore nel Cleantech

startup Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Il sistema normativo italiano è adeguato alla nascita di aziende tecnologiche? È adeguato a dotare le aziende di un management tale da sopravvivere ai cambi generazionali? Se guardiamo la storia del sistema industriale italiano è evidente che c’è un problema.

Se da un lato vediamo continuamente aziende padronali performare bene sui mercati internazionali, essere leader di nicchie, avere una capacità di adattamento da primi della classe, quando ci troviamo nella fase del salto qualitativo sembra quasi che ci sia un problema antropologico. Il sistema produttivo e industriale fallisce miseramente. Allo stesso tempo fallisce in modo ancora più clamoroso con aziende che devono nascere grandi. L’Europa conta circa 70 unicorni, anche la Nigeria ne ha uno l’Italia (specie se VB backed) ha il contatore fermo a zero al netto delle notizie di cronaca giudiziaria.

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Le anomalie nel Codice civile

Senza entrare nelle considerazioni sugli investimenti in capitale di rischio in Italia e i suoi operatori. È interessante valutare se il Codice civile italiano non sia una delle cause della povertà nella governance delle aziende. Facciamo il caso di fondare una startup che raccoglie da investitori istituzionali 1-2 milioni di euro. Un round che può essere tra il seed e l’A e che quindi richiede una struttura societaria adeguata. Questa startup, come spesso succede, per non avere limiti nella trasferibilità delle quote sarà costituita in SpA.

Quindi, una startup che non fattura, oppure fattura poche centinaia di migliaia di euro dovrà dotarsi di una governance in linea con il Codice civile. Si doterà quindi di un collegio sindacale normalmente di 3 persone, darà anche un incarico a una società di revisione per certificare il bilancio, si doterà di un CdA di solito almeno 3 persone.

Le patologie del sistema

Qui comincia una prima patologia del sistema. Una società che magari ha una decina di occupati ha nella sua testa una struttura di 7 soggetti giuridici che dal punto delle responsabilità sono amministratori, quindi rispondono in solido con l’amministratore ma che non hanno nulla a che vedere con il business dell’azienda. Allo stesso tempo probabilmente vista l’inesperienza dello startupper per questo tipo di governance, ecco che magari uno dei componenti del CdA è “esperto” nella gestione di questo tipo di rapporti. Avremo quindi un organo amministrativo composto da almeno 5 commercialisti revisori su 7. Allo stesso tempo l’azienda avrà un suo commercialista ed un suo responsabile amministrativo interno.

“Perfetto” si dirà, “le aziende sono un soggetto economico: avere una certezza dei numeri, controllati come si deve e tempestivi renderà la governance eccellente.” In teoria. In pratica cosa succede? Gli amministratori di cui sopra non sono persone coinvolte nel business, non è detto neanche che sappiano cosà fa l’azienda. Allo stesso tempo hanno remunerazioni basse per il profilo ma dal costo importante per la startup. Stiamo parlando facilmente di un costo che parte nell’intorno 70 mila euro annui, escluso i compensi all’amministratore o fondatori

Allo stesso tempo questi amministratori non hanno nessun beneficio diretto dalle performance positive dell’azienda ma il Codice civile li considera responsabili nei confronti dei terzi. Niente di grave si dirà.

Se la gestione non prevede dolo nessun problema. Peccato che il Codice civile impone agli amministratori, in sede di approvazione di bilancio, di garantire la continuità per i 12 mesi successivi, altrimenti bisogna mettere in liquidazione l’azienda. Questo diventa automaticamente un incentivo mostruoso agli amministratori alla prudenza, in quanto se l’azzardo va bene non ne hanno nessun vantaggio, se l’azzardo va male ne rispondono personalmente. Prevede ad esempio di approvare un budget dove, se la cassa diventa negativa perché la startup è in una fase di espansione, non si può risolvere con un nuovo round “incerto” infra-annuale, bisogna approvare un budget ed un piano industriale in continuità e quindi rallentare il piano di espansione.

Problema numero 2. Questi soggetti giuridici sono pagati dall’azienda ma allo stesso tempo non lavorano per l’azienda. E qui ci sono due livelli di incentivi che rischiano facilmente di generare in patologia. Mentre l’executive board di un’azienda internazionale ha come prima obbiettivo soddisfare e far performare bene l’azienda, una struttura di CdA come questa lavora principalmente per gli azionisti, cioè avrà la sua convenienza a soddisfare le esigenze degli azionisti che magari li nomineranno in altri CdA. È più un esercizio del controllo che un’espressione della governance dell’azienda. La relazione vale più della capacità manageriale.

Problema numero 3, a meno di non avere cieca fiducia nel fondatore (cosa che in Italia succede poco) le seconde linee dell’azienda, la dirigenza operativa, sarà scelta e nominata dall’organo amministrativo. Quindi, in sostanza, persone che in larga parte non sanno nulla del business sceglieranno i dirigenti che operativamente gestiranno quel business.

Il confronto con la Germania

Vediamo cosa succede all’estero. In particolare, in Germania.

Intanto il corrispondente della SpA italiana è l’AG. L’organizzazione della società prevede la presenza di un consiglio di gestione e di un consiglio di sorveglianza. Ma la numerosità di queste aziende è minima e riguarda principalmente aziende grandi e quotate. Nonostante la potenza dell’economia tedesca il numero è di circa 3000. LA forma più comune è la GmbH simile alla nostra srl. Il consiglio di amministrazione non esiste ma ci sono più amministratori, l’unico limite ai poteri è la firma congiunta tra più amministratori. Anche in una GmbH con un miliardo di euro di fatturato non esiste il collegio sindacale, ma si può istituire volontariamente un consiglio di sorveglianza, spesso interno all’azienda.

Sono i soci a stabilire i poteri di questo consiglio di sorveglianza se consultivo o competenze proprie. Ma la distanza siderale tra i 2 sistemi la si vede dal fatto che non esistono libri sociali. La redazione del bilancio è estremamente semplificata. Fino a 12 milioni di ricavi e 50 dipendenti solo stato patrimoniale abbreviato nota integrativa abbreviata. Per necessitare di una valutazione di un revisore bisogna superare i valori precedenti. L’obbligo di deposito di bilancio che in italiano chiameremmo in forma ordinaria arriva solo se si superano i 40 milioni di ricavi e 250 dipendenti.

Queste differenze normative plasmano le governance delle aziende. Abbiamo quindi un sistema dove il management lavora per l’azienda, è spesso business oriented esperto del settore, molto libero dalla gestione che nominerà di dirigenti di questa azienda. Un approccio culturale dettato dalla dottrina empirico-realista dove l’economia aziendale è una scienza pratica e orientata alla risoluzione delle problematiche della gestione aziendale. Dove il going concern (il principio di continuità del bilancio italiano) è una responsabilità degli amministratori, non di contabili e consulenti esterni.

Gli effetti sulla governance delle aziende e relativo management sono evidenti: nel sistema italiano è molto diffuso che i consigli di amministrazione delle aziende non necessariamente siano persone non coinvolte nel business, con competenze contabili amministrative da professionista, di età anagrafica medio alta, dove la relazione è l’asset principale per avere nomine ed incarichi.

Rispetto a un sistema (quello tedesco) dove il consiglio di amministrazione non esiste ma c’è solo il management e dove chi controlla è interno e direttamente collegato alla gestione e alla vita dell’azienda. Queste problematiche di governance, nelle aziende italiane padronali, sono risolte da un azionista padrone che si fa carico delle responsabilità e guidato dall’animal spirit dell’imprenditore decide e tutti gli altri, siccome sono nominati da lui, si adeguano. Allo stesso tempo però rischiano di distruggere l’azienda in tutti i momenti in cui o viene meno l’imprenditore o quando il “one man show” non è più sufficiente. Allo stesso modo le stesse norme tagliano le gambe all’intero ecosistema delle startup, le cui aziende devono nascere grandi per sperare di essere unicorni.

Conclusioni

Purtroppo, il legislatore a ogni passaggio si impegna ad inasprire un sistema già eccessivamente orientato al controllo e alla responsabilità. A questa aggravante si aggiunge un profilo di investitori di formazione private equity (principalmente banche) che per storia professionale non vedono i limiti operativi di questi approcci gestionali ma anzi, aggiungono ulteriori stratificazioni che soffocano il bimbo nella culla. Piuttosto meglio investire gli stessi soldi per pagare un Advisory board di esperienza nelle industrie di riferimento.

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