Per innovare serve entusiasmo, servono giovani motivati e preparati, servono dinamiche agili che rendano possibile ed economicamente efficiente investire in “cose nuove” e rischiose.
Tuttavia, questi principi che sono certamente sacrosanti, nella narrazione di oggi sono stati banalizzati e semplificati. Molto francamente, non se ne può più di sentire slogan come “cambiamo tutto, diamo spazio ai giovani, facciamo un hackathon, con le startup rinnoviamo il paese, i fablab sono le industrie del domani”. Sono tutte frasi singolarmente positive nelle giuste dosi, ma divengono una iattura se esasperate e banalizzate come oggi troppo spesso avviene.
I giovani
Certamente dobbiamo valorizzare i giovani. Certamente essi sono portatori di freschezza e idee essenziali per cambiare le cose. Ma è illusorio che la gioventù possa da sola ovviare a problemi strategici o di mercato di una impresa. Peggio, è profondamente ingiusto usare questi argomenti per iniziative dove i giovani vengono usati per “generare idee” o “fare dei prototipi” gratuitamente (o quasi), dicendo che così si “mettono in mostra”.
In generale, troppo spesso rischiamo di trasformare un giusto e legittimo sforzo volto a valorizzare i giovani in un ben meno nobile strumento per usare forza lavoro entusiasta a basso costo.
Gli hackathon
Ho visto che adesso per qualunque problema si propone di fare un hackathon come strumento per portare l’innovazione in impresa. Certamente fare hackathon può servire per stimolare la generazione di idee oppure per coinvolgere le persone. Ma veramente pensiamo che l’innovazione possa essere ridotta solo ad un happening che in un giorno o due risolve problemi di mercato o di produzione di una impresa? Ma se fosse così semplice facciamo un hackathon permanente di sistema paese e in poco tempo diventiamo i migliori del mondo! E che ci vuole!
Le startup
È il tema del giorno. Tutti parlano solo di questo. Sembra sia il problema nazionale. Per sgombrare il campo da equivoci, dico subito che creare startup va benissimo. Ma non possiamo pensare che basti farle per trasformare il tessuto produttivo dell’Italia e che sia l’unica cosa alla quale un intero paese si aggrappa. È come dire che per un pranzo pensiamo solo al dolce senza preoccuparci di antipasto, primo e secondo.
Perché le startup abbiano veramente un impatto sul sistema paese devono inserirsi in un tessuto imprenditoriale che sia capace di valorizzarle: comprandole, usandone i prodotti e servizi, integrandole nelle proprie filiere produttive. È solo così che le startup crescono, diventano imprese vere e proprie, incidono sulle altre imprese utenti, diffondono innovazione, si radicano e fanno crescere il territorio. Guarda caso, da noi le startup nascono come in altri paesi, ma crescono molto meno di quel che accade in altri paesi!
Se le startup non sono integrate nel tessuto imprenditoriale del paese, certamente accadrà che qualche giovane tragga vantaggio da una exit di successo (fatto assolutamente positivo e legittimo); certamente facciamo felici imprese straniere che si portano via il know-how che faticosamente viene sviluppato da tante nostre startup che non trovano acquirenti nostrani; di certo non cambiamo il paese, né rendiamo competitive le migliaia di aziende, spesso medio-piccole, che tutti i giorni si trovano a confrontarsi con la competizione internazionale.
Quel che serve
Per spingere il sistema paese ad innovare serve una grande realismo che eviti stereotipi, scorciatoie e banalizzazioni. E serve mettere in campo una serie di strumenti diversificati e complementari che, un po’ alla volta, cambino dinamiche e comportamenti consolidati da decenni. Ne cito qui qualcuno, senza avere l’ambizione di chiudere il dibattito.
– Facciamo crescere le startup, certamente. E rendiamo più semplice fare investimenti in startup: perché nonostante tante chiacchiere, ancora oggi per un investitore è più conveniente operare all’estero che in Italia.
– Favoriamo i processi di crescita dimensionale delle imprese esistenti. Sono loro per prime che dovrebbero finanziare o comprare le startup, per incorporare al proprio interno le innovazioni che vengono proposte. Oggi invece continuiamo a pensare che “piccolo è bello”, senza neanche renderci conto che se confrontiamo l’Italia con altri paesi, “piccolo” da noi vuol dire “microscopico”. E poi ci lamentiamo o sorprendiamo che la spesa in innovazione delle imprese italiane è metà della media dell’Europa a 15 (fonte OCSE)? Oppure veramente pensiamo che l’innovazione si fa “a basso costo” con qualche studente e un hackathon?
– Incentiviamo l’innovazione diffusa. Tutti devono innovare. Perché ciò accada dobbiamo aiutare e spingere le imprese a trovare i propri percorsi di innovazione. Servono strumenti generali e automatici per favorire questi processi, come il credito di imposta per ricerca e innovazione di cui tanto si parla e che mai viene rilanciato come dovrebbe.
– Serve un procurement pubblico illuminato e strategico. E invece ci troviamo con procedure al massimo ribasso che favoriscono volumi, bassa qualità, status quo.
Un cambiamento profondo
L’innovazione, vera, seria, profonda per l’Italia è vitale come l’acqua per viaggiatore nel deserto. Ma stiamo correndo il rischio enorme di banalizzarla, di trasformarla in un totem o in uno stereotipo comunicativo che ignora complessità, sfide e contesto.
Il rischio non è tanto sprecare soldi o non veder accadere alcunché. Il vero rischio è che nelle persone, negli imprenditori, nei decision makers si consolidi la percezione che alla fin fine siano “tutte chiacchiere” perché non vedono un reale effetto sistema. E che magari si torni a dire, come molti dicono, che piuttosto che innovare dovremmo affidarci ad una salutare svalutazione di una bentornata liretta.
Non si tratta di “benaltrismo”. Si tratta di affrontare con serietà un tema che determina il futuro del nostro paese.