Se l’innovazione e il progresso si misurassero in base al numero e al valore degli unicorni (startup che valgono almeno 1 miliardo di dollari non ancora quotate), non solo dovremmo constatare che l’Italia sarebbe all’ultimo posto dell’Unione Europea, ma soprattutto dovremmo essere confidenti nel miglioramento degli indicatori di benessere nei paesi con più unicorni.
Ma possiamo immaginare un mondo senza unicorni e, soprattutto, come sarebbe?
L’impatto degli unicorni sulla società
Qualche dubbio tuttavia è lecito esprimerlo. Nel corso degli ultimi anni l’indice di disuguaglianza (indice Gini) ha continuato a galoppare tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, habitat naturale di Unicorni valutati anche decine e centinaia di miliardi di dollari (Space X di Elon Musk). Il tasso di disoccupazione non accenna a diminuire in maniera consistente in Europa. Così come il numero di persone sotto la soglia di povertà. Negli Stati Uniti i dati positivi in termini di povertà degli ultimi 2 anni, che sono stati spesso presentati come esempi di una nuova potente digitalizzazione dell’economia, possono però essere più facilmente spiegati dalle nuove misure di welfare sociale introdotte nel 2020.
Insomma, gli Stati sempre di più investono sugli Unicorni e sull’economia digitale, ma per il momento non è chiaro se entrambi questi elementi abbiano un impatto algebricamente positivo sulla società. Non è detto nemmeno il contrario, ovviamente.
Nel 2013 gli unicorni erano solo 19. Oggi sono oltre 1000. Intorno alla costruzione dell’Unicorno digitale si è sviluppata una vera e propria mitologia. Gli unicorni sono ormai un tema politico. Avere unicorni è percepito come un segnale di innovazione nazionale, una forma di prestigio tecnologica. L’Italia attualmente non ha ancora dato i natali a Unicorni e questo viene percepito dall’ecosistema nostrano delle startup come motivo di profonde riflessioni, con l’indice sempre puntato verso gli investimenti minori e in ritardo rispetto alla media europea. Ma è veramente motivo di imbarazzo?
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Caratteristiche dell’unicorno
L’Unicorno presenta specifiche caratteristiche. Ha un modello di business fortemente scalabile, si propone di creare o ridefinire un intero mercato (spesso sulle ceneri di uno preesistente) opera in settori considerati strategici (finanza, commercio, medicina, software, blockchain), ha obiettivi di crescita internazionali, non è orientato al fatturato ma alla conquista dell’intero settore di riferimento. Questi ultimi due punti sono determinanti. La mancanza di redditività e le mire di crescita illimitata aumentano la necessità di grandi finanziamenti, che generalmente arrivano dai fondi di Venture Capital. La finanza è dunque parte integrante del modello di business degli unicorni, che per sopravvivere e raggiungere i propri obiettivi si legano a doppio nodo ai round di aumento di capitale dei fondi VC per crescere, aumentare la valutazione e colonizzare il mercato. Questa influenza della finanza amplifica ulteriormente gli obiettivi di crescita e di espansione, dacché i VC operano secondo la legge di Pareto, in base a cui l’80% delle startup in cui hanno investito produrranno solo perdite, mentre nelle restanti il 20% c’è il cavallo vincente (Unicorno, appunto) che permette di vincere il Jackpot e generare il rendimento finanziario atteso dal fondo. I VC spingono dunque verso business plan ambiziosi, delineando traiettorie di crescite esplosive.
Non ci sono dubbi sul fatto che ciò che interessa al fondo di Venture Capital è una portentosa exit, indifferentemente che avvenga tramite acquisizione da parte di un’azienda più grande o quotazione in borsa. E, trattandosi di capitale di rischio, la exit deve consentire un ritorno di investimento di 5-10 volte, in modo da consentire il recupero delle perdite generate dalla maggior parte delle startup che invece hanno chiuso i battenti. Così dunque se un fondo investe 20 milioni nella startup ad una valutazione di 200 milioni, acquistando quasi il 10% di quote (20/(200+20)), allora avrà come obiettivo minimo di liquidare le quote ad una valutazione di 2 miliardi, con un residuo di quote al momento della vendita di almeno il 5%, incassando 100 milioni. Per raggiungere questi risultati i venture capital devono sostenere la crescita esplosiva e dirompente puntando sui business plan più ambiziosi, spingendo l’intero ecosistema startup a progettare sempre più Unicorni.
Focus sulla scalabilità
Il punto importante però riguarda lo sguardo di insieme. Il Fondo non ha obiettivi sistemici. Per il fondo non è rilevante che l’Unicorno generi 1000 posti di lavoro, ma che a causa della scalabilità digitale e della distruzione del mercato preesistente ne elimini 9000. Anzi la scalabilità, ovvero la capacità della startup di generare valore con un minor impiego di costi fissi e di risorse umane, è uno degli elementi che definiscono le condizioni di possibilità dell’Unicorno. Si potrebbe dire addirittura che tanto maggiore è la capacità della startup di diventare “scalabile” tanto maggiore è la sua possibilità di diventare unicorno. Non esiste Unicorno che non sia scalabile.
L’economia degli unicorni
Torniamo dunque al dubbio iniziale. L’economia degli Unicorni, guidati dalla Finanza e dalla necessita di enormi ritorni di investimento da parte degli investitori insegue un modello di crescita vorace e rapace, nel cui DNA vi è una dimensione distruttrice (del vecchio mercato) e una dimensione di efficientamento (scalabilità), che però è a sua volta associata alla riduzione di personale. Pensiamo ad un unicorno nel settore editoriale, in grado di generare articoli automaticamente grazie ad un innovativo software di intelligenza artificiale. Con il supporto di un piccolo gruppo di giornalisti che ottimizzano stilisticamente gli articoli, il sistema è in grado di redigere mille articoli giornalieri, utilizzando miriadi di fonti (agenzie stampa, giornali internazionali, siti e social network) e assemblando gli articoli in modo intelligente. Dopo i primi mesi di prove ed errori, emerge che la piattaforma è in grado di ridurre del 70% il costo del personale giornalistico. Dal punto di vista dell’efficientamento e della scalabilità, una startup di questo tipo sarebbe certamente interessante. E se poi si dimostrasse che la piattaforma è anche in grado di generare traffico, lettori, visitatori, allora non ci sarebbero reali ostacoli a trasformarla in un Unicorno, inondandola di investimenti. Grazie alla costante immissione di liquidità, l’unicorno editoriale potrebbe alimentare la propria crescita attraverso il perfezionamento dell’algoritmo di intelligenza artificiale e attraverso poderose campagne di marketing. Nel giro di un paio d’anni, la piattaforma potrebbe guadagnare importanti quote di mercato a scapito di testate meno efficienti.
Nel frattempo, altri editori, preoccupati per la diffusione di questo nuovo modello inizierebbero a perseguire l’obiettivo di una sempre maggiore automatizzazione nella redazione degli articoli, investendo in tecnologia e intelligenza artificiale. Nel corso di un lustro, il mercato editoriale verrebbe profondamente trasformato da queste innovazioni. La pratica di scrittura ormai automatizzata non sarebbe più un precipuo compito dei giornalisti e il personale impiegato sarebbe ridotto del 50-75% a parità di lettori. Dal punto di vista degli investitori e degli editori si tratterebbe di un successo importante. L’Unicorno editoriale avrebbe ottime possibilità di quotarsi, essere acquisito e generare lauti ritorni di investimento per i Venture Capital. Avrebbe anche rivoluzionato il mercato e ridefinito i suoi confini. Ma potenzialmente avrebbe ridotto il personale impiegato nel settore. Analizzando il mercato in maniera verticale e non sistematica, gli analisti potrebbero anche dire che il settore dell’editoria digitalizzata genera migliaia di nuove posizioni lavorative, ma complessivamente il mercato editoriale darebbe il lavoro a meno persone.
Ovviamente questo è un semplice esperimento mentale. Una startup di questo tipo probabilmente non è così interessante. Ma qualcosa di simile sta succedendo nel segmento fintech (chiusura delle filiali e apertura di banche “only digital” e “only mobile”), nel retail (chiusura dei negozi e apertura di ecommerce e marketplace), nella ristorazione (che vede la nascita del dark kitchen e la chiusura dei ristoranti). In generale la digitalizzazione sta ridefinendo i propri perimetri e questa ridefinizione passa attraverso la crescita esplosiva di Unicorni. È persino vacuo chiedersi se la digitalizzazione dirompente generata dagli Unicorni genera nuovi posti di lavoro. Certamente ne genera, ma per definizione ne distrugge più di quanto ne crea. In nome del principio dell’efficientamento e della scalabilità.
Il problema del modello unicorno
Il problema del modello Unicorno sta nel dogma della crescita infinita e della scalabilità a tutti i costi. Elementi che a loro volta dipendono dal modello di business dei venture capital.
Il modello unicorno non è tuttavia l’unico modello di crescita. Si stanno diffondendo nuovi approcci nel mondo startup: le B-corp, l’impact investing, la filosofia delle triple bottom line. Lo stesso web 3.0 nasce intorno ad una filosofia differente che riequilibra il sistema verso una maggiore equità. In generale questi nuovi approcci guardano non solo al modello di business della startup, ma alla relazione tra il modello di business con l’ambiente, la società e il mercato di riferimento.
Coloro che si disperano per la mancanza di unicorni non hanno probabilmente capito che il futuro potrà essere sostenibile solo se verranno sviluppati modelli di crescita più organici e sostenibili in grado di tenere conto dell’ambiente, delle persone, dei mercati esistenti. Un mondo senza Unicorni non è solo possibile. Probabilmente è anche migliore.