Questo biennio di pandemia, se da un lato non ha prodotto il disastro che i grandi venture capitalist mondiali si aspettavano nei loro portfolio, ha invece trasformato radicalmente il loro modo di lavorare, la loro geografia, la loro velocità.
Gli effetti di tutto ciò li vedremo molto rapidamente, e finalmente anche in Italia.
Venture Capital, in arrivo due miliardi. Che bello: ma resta il nodo competenze
La svolta del venture capital: molti più soldi, ma non solo
L’investimento globale di venture – che va dai primi investimenti pre-seed e seed (prima del prototipo, e prima del lancio commerciale) per le aziende che stanno appena iniziando, ai finanziamenti verso startup più mature – è sulla buona strada per raggiungere un massimo storico di 580 miliardi di dollari quest’anno, secondo PitchBook, una delle maggiori piattaforme di raccolta di dati del settore. Ossia quasi il 50% in più di quanto è stato investito nel 2020, e circa 20 volte rispetto al 2002.
Ma non è solo una questione di molti più soldi disponibili. È il tipo di platea di soggetti che fanno investimenti di classe venture ad essere cambiata totalmente, quantomeno negli Stati Uniti, con l’effetto di generare un’onda che inizia a propagarsi nel resto del mondo. Una volta si parlava solo di una nicchia di operatori della Silicon Valley, che raccoglievano fondi e investivano per conto di fondi pensione e altri grandi investitori, spesso facendo affidamento sulle loro vaste reti di contatto con i fondatori delle startup. Ora, però, solo tre dei dieci più grandi investitori di venture per asset in gestione sono gestori Venture Capital tradizionali. Gli altri sono private equity, hedge fund, e persino family office: VC non tradizionali che passeranno da 144 miliardi di dollari nel 2020 a 260 miliardi di dollari quest’anno.
Si tratta di ben il 44% dell’attività globale di VC, dal 20% nel 2002. I fondi “crossover” come Tiger Global Management, che sono a cavallo tra i mercati pubblici e privati, stanno impiegando il capitale ad un ritmo vertiginoso. I fondi pensione stanno sempre più investendo direttamente nelle startup.
Nelle scorse settimane io stesso ho avuto modo di conoscere un family officer statunitense, trasferitosi a vivere in Italia con la famiglia, e di parlarci a lungo apprendendo che gestisce oltre un miliardo di dollari e che – a latere di altre tipologie di investimenti – fa abitualmente già da tempo round dal seed in avanti in startup, ed è ben avvezzo con le logiche di rischio/rendimento del settore.
L’impatto dell’avanzamento tecnologico sulle barriere all’accesso
Ora, da una parte questa inondazione di denaro da parte di investitori dalle tasche profonde ha contribuito ad alzare le valutazioni. Qualcuno mormora di bolla, succede sempre. Ma la verità è che l’impatto dell’avanzamento tecnologico abbassa le barriere all’accesso per nuove imprese in molti nuovi settori, oltre ai classici servizi software e web oggetto dell’attenzione del VC dell’ultimo ventennio, e questo trend quindi sta anche portando soldi verso settori un tempo trascurati, creando nuove opportunità: l’attività di venture oggi si estende ben oltre la Silicon Valley, e sta finanziando nuove imprese che lavorano su tutto, dalle blockchain alle biotecnologie, alle reti energetiche, alla mobilità, allo spazio.
Come conseguenza, gli operatori VC stanno cercando nuove strategie, per differenziarsi come possono, ma soprattutto imitando i loro concorrenti della finanza tradizionale che invadono il loro campo: la pressione competitiva sta producendo una trasformazione straordinaria.
Un breve excursus “storico” per comprendere il cambiamento presente
Ricapitoliamo velocemente la storia del settore: la moderna industria del venture capital è nata nella Silicon Valley, negli anni ’60. Arthur Rock, che lasciò i laboratori della Fairchild Semiconductor (un produttore di chip), raccolse 5 milioni di dollari per il suo primo fondo da dei sottoscrittori a cui restituì 100 milioni di dollari in sette anni. Eugene Kleiner e Don Valentine lo seguirono presto, fondando rispettivamente Kleiner Perkins e Sequoia. Entrambe sono ancora oggi tra le più grandi firm globali di Venture Capital.
L’approccio fin dall’inizio era quello di investire per sostenere con ingenti capitali un certo numero startup ad alto rischio ed altissima ambizione nella speranza che i grandi successi avrebbero ripagato il fondo ed il suo rendimento atteso, nonostante i fallimenti di molte società del portfolio (oggi questa logica ampiamente consolidata tra i VC di successo è detta “Venture Power Law”). Gli investimenti erano spesso fatti prima che una startup avesse qualsiasi entrata.
I round di finanziamento successivi al fatturato
Poi arrivavano round di finanziamento successivi al fatturato, tipicamente denominati di Serie A, B, C, man mano che una società maturava. I VC gestivano fondi chiusi, il che significa avviavano una raccolta e poi gestivano l’allocazione selezionando il dealflow da portare nel portfolio, per poi distribuire i rendimenti agli investitori (di solito fondi pensione, fondi di fondi ed altri investitori orientati al lungo termine) alla liquidazione del periodo fissato, di solito dopo sette-dieci anni, dopo aver trattenuto una percentuale per la gestione (detta managing fee) e la loro parte sui profitti generati (detto carried interest).
I VC della Silicon Valley però non si limitavano a fornire finanziamenti alle startup. Hanno anche fatto da sempre da consiglieri, spesso prendendo un posto nel consiglio di amministrazione. Per decenni hanno offerto la propria esperienza e l’accesso a una rete di contatti, introducendo le startup a manager e professionisti competenti e in grado di aiutarle, per esempio.
Un modello di successo
Il modello ha avuto un successo sorprendente: sebbene le aziende sostenute dai VC rappresentino meno dello 0,5% delle aziende americane create ogni anno, oggi queste costituiscono quasi il 76% della capitalizzazione totale del mercato borsistico delle aziende avviate dal 1995. Nel corso del tempo i VC hanno scommesso sempre di più su startup un po’ più vecchie “late-stage” (che, da parte loro, hanno ritardato l’entrata in borsa), portando rendimenti eccezionali ovunque abbiano operato secondo la Venture Power Law, cioè non tanto nel perseguimento della prudenza nel cercare di comporre un portfolio di startup a basso rischio di fallimento ovvero tenendo il focus sul downside (proprio del Private Equity), quanto sulla selezione di progetti incerti e rischiosi ma estremamente ambiziosi, cioè tenendo il focus sull’upside.
Perché sconvolgere un modello consolidato
Perché, allora, un modello così consolidato viene sconvolto? È il risultato, come scrivevo sopra, della concorrenza data sia dall’ingresso di nuovi concorrenti sia di un maggiore interesse da parte degli investitori che di solito operavano in fasi molto più mature dell’equity, a ridosso del collocamento in borsa o anche dopo. Questa concorrenza a sua volta riflette il calo dei tassi d’interesse in tutto il mondo occidentale, che ha spinto gli investitori in mercati più rischiosi ma ad alto rendimento. E senza dubbio ha aiutato il fatto che il VC è stata l’asset class con il rendimento più alto a livello globale, che negli ultimi tre anni ha avuto un rendimento comparabile a quello del private equity e dei listini di borsa degli ultimi dieci anni.
Gli investitori che prima evitavano il VC, quindi, o che ne sottoscrivevano i fondi affidando a questi operatori la gestione dell’allocazione, ora negli USA stanno entrando nel settore direttamente, disintermediando i gestori specializzati. La corsa del capitale ha spinto i prezzi verso l’alto, le valutazioni del seed-stage oggi sono vicine alle valutazioni di serie A (i round in aziende più mature che possono già generare entrate) di dieci anni fa. Ma i finanziamenti stanno anche dilagando in nuove aree geografiche: nel 2002 l’84% dell’attività di venture globale, in termini di valore, ha avuto luogo in America. Quella quota è ora circa il 49%. La quota della Cina è cresciuta da meno del 5% negli anni 2000 al 37% nel 2018, prima che la recente repressione sulle big tech la facesse scendere a circa il 20%. Il capitale, nel frattempo, ha iniziato a correre verso le praterie europee, dove la scena è in maturazione ma ancora arretrata ed imbrigliata in cultura finanziaria e regole che limitano la capacità dei gestori di allocare investimenti velocemente, rendendoli perdenti nei confronti dei nuovi investitori.
La crisi dei VC tradizionali
Per molti venture capitalist della vecchia scuola questo nuovo mondo ultra-competitivo è inquietante e spiazzante, e questa concorrenza genera un effetto vizioso per i VC tradizionali che hanno sempre più difficoltà a trovare sottoscrittori, non riuscendo ad accaparrarsi partecipazioni nelle startup migliori che hanno molta più scelta e offerte di capitale a condizioni ogni giorno di maggior vantaggio. Nonostante il boom, quindi, la raccolta di nuovi fondi da parte di VC in America è scesa da un picco di 14 miliardi di dollari nel 2018 a una previsione di 5,5 miliardi di dollari nel 2021. In grande scala, e sebbene la diversa fase di maturazione dell’industry, è un po’ quello che succede in Italia dove tutte le più importanti operazioni di investimento di cui si è letto negli ultimi dodici mesi non hanno quasi mai visto coinvolti i VC italiani, tradizionalissimi nel loro approccio e dalle basse performance, perché le startup migliori vengono raggiunte da investitori esteri che sempre più attivamente si affacciano nel Paese in caccia di opportunità, battendo gli operatori locali in velocità e condizioni di investimento. E difatti i VC locali trovano difficoltà crescente a trovare sottoscrittori per i loro fondi.
Parole d’ordine: differenziare e scalare
Una delle risposte dei venture tradizionali negli USA è la differenziazione: se molti investitori crossover tendono a adottare un approccio guidato dai dati, costruendo portafogli di startup che assomigliano a un indice di settore, ed evitano di giocare un ruolo attivo nelle loro società di portafoglio, all’opposto alcuni VC stanno enfatizzando il loro tocco personale nell’aggiungere valore al denaro che immettono nelle startup. Ma per fare questo, bisogna avere un track record ed una capacità reale di aggiungere valore, propria di chi ha avuto un trascorso imprenditoriale di successo o esperienza di gestione di acceleratori prima di passare al VC. Caratteristica – questa – vincente ma molto legata alla maturità dell’industry americana, e che è invece ancora ben lungi dal vedersi nei VC europei (e ancor meno in quelli italiani).
Per fare esempio di diversificazione dell’offerta, un fondo Texano, 8vc, sta arricchendo l’attività con un proprio incubatore di startup, che fa nascere circa cinque aziende all’anno. Un altro VC specializzato, Slow Ventures, sta investendo direttamente nei percorsi di carriera dei talenti, come i creatori di contenuti online, che potrebbero non gestire ancora un vero e proprio business.
Un’altra risposta dei venture investor tradizionali è stata quella di scalare di dimensione: alcuni Business Angel, che tradizionalmente investono il proprio denaro senza un team o un’azienda, stanno evolvendo in venture capitalist mono gestore o solista (detti “solo VC”): possono muoversi molto velocemente, non avendo altri partner da convincere prima di chiudere un’operazione, battendo sul tempo strutture più lente sui deal migliori. Elad Gil, un noto solo VC, ha fatto circa 20 investimenti nella prima metà del 2021 e sta raccogliendo un fondo di 620 milioni di dollari, una somma sorprendente per un investitore individuale.
Approcci simili in Italia sarebbero impensabili, eppure sono quelli più performanti.
Ma anche le VC firm più grandi e conosciute oltreoceano si stanno allargando. Andreessen Horowitz ha fatto crescere il suo team di investimento da circa 25 a 70 membri negli ultimi quattro anni. Offre alle aziende del proprio portfolio del supporto un po’ su tutto, dalle politiche di diversità e inclusione a una vasta rete di potenziali talenti per assunzione, fino ad aprire porte con grandi clienti.
Lo spostamento di potere dagli investitori ai fondatori
Un altro forte cambiamento avvenuto nell’ultimo anno in questi operatori è il tempo necessario per concludere un investimento, che si è ridotto da diverse settimane a giorni, se non ore. Le zoom call hanno cambiato la natura del fundraising delle startup.
Lo spostamento di potere dagli investitori ai fondatori è benvenuto per certi aspetti, dato che il vantaggio per i nuovi imprenditori e per la nascita di innovazioni sempre più ambiziose è evidente: i fondi crossover e gli investitori più esperti sono meno focalizzati sul negoziare al ribasso dei fondi tradizionali e di quelli iperlocali, e non richiedono condizioni stringenti che ritengono inadeguate a ridurre il rischio (il downside di un investimento che va male è sempre zero), ma anzi le ritengono ingessanti e limitative della capacità di crescita di una buona startup. E per le startup in fase avanzata, il denaro degli investitori è sempre più fungibile, ha meno importanza chi investe rispetto a quanto sono disposti a pagare.
I rischi degli accordi abbreviati
Ma ci sono anche dei rischi. Gli accordi abbreviati possono portare alla fomo (paura di rimanere fuori dai deal) per gli investitori e, a volte, a decisioni di investimento peggiori. Il cambiamento ha anche indebolito gli schemi di governance. Poiché la leva del potere si allontana da loro, i VC ottengono meno posti nel consiglio d’amministrazione e i fondatori mantengono il potere di voto. In questo modo, però, fondatori che sono cattivi amministratori delegati – come è noto il caso Travis Kalanick, l’ex capo di Uber – possono resistere più a lungo di quanto dovrebbero nel loro posto e danneggiare l’azienda e tutti i soci, che sono non solo i VC ma anche altri co-fondatori e i dipendenti con stock option.
Conclusioni
Ovunque vadano le valutazioni, sembra che i cambiamenti alla struttura del Venture Capital dureranno. I rendimenti esagerati degli investimenti early-stage non potevano durare in eterno senza sollecitare appetiti. Quindi, poiché i fondi VC sono costretti dalla pressione competitiva a reinventarsi, il risultato è che una più ampia gamma di idee viene sostenuta in una più ampia varietà di luoghi spingendoli fuori dagli Stati Uniti, e mandando la maggior parte di questi in caccia soprattutto in Europa ed ancor più in un luogo in cui l’industry del Venture Capital è pressoché assente come l’Italia. Sono sempre più numerosi i founder con cui parlo che mi raccontano di venire approcciati da numerosi VC statunitensi che chiedono di conoscerli per una valutazione di investimento, e che incredibilmente non ricevono neanche una richiesta di contatto da VC locali che invece dovrebbero essere in grado di intercettarli ben prima degli americani.