Forse è eccessivo parlare di ostilità dell’Europa nei confronti dell’imprenditoria. Ma sicuramente si può parlare di inadeguatezza delle condizioni. Eppure, il cambiamento è nell’aria, spinto dalle grandi mutazioni nell’industria del capitale di rischio americana: i venture capitalist, che cercano di fiutare la prossima Google mentre viene ancora gestita dai tavoli delle cucine dei nuovi tech founder, si stanno concentrando sulle startup europee. Ce ne sono molte di più di un tempo tra cui scegliere.
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Come e perché l’Europa ora attrae i venture capitalist Usa
Gli imprenditori europei che una volta sarebbero andati negli USA a sviluppare una startup, nonostante nell’ultimo decennio si sia sviluppato un sottobosco di soggetti che vivono di un’attività biasimevole di “esportazione” di startup approfittando delle debolezze europee ed esaltandole per convincere nuovi imprenditori ad affidarsi a loro e spostarsi negli USA, soprattutto dopo la pandemia è invece probabile che decidano di rimanere a casa propria piuttosto che andare in Silicon Valley, perché la qualità (e il costo) della vita è incomparabile sia per i fondatori che per chi lavora nelle startup, e perché ormai sono gli investitori a muoversi.
Il nuovo recente afflusso di capitale dagli Stati Uniti all’Europa è – difatti – la prova di uno stato d’animo mutato tra i VC statunitensi. Dieci anni fa, le imprese europee si accaparravano meno di un decimo di tutto il capitale di rischio investito a livello globale, anche se la quota europea del PIL globale era poco più di un quarto. Quest’anno ha visto sì i volumi di deal making salire in molte regioni, ma in particolare l’Europa ora attrae circa il 18% dei finanziamenti VC globali, secondo la piattaforma di raccolta ed elaborazione dati Dealroom. I finanziamenti sono ai massimi storici, quindi pompando i valori delle startup europee. Il continente ora vanta 65 città sede di almeno un “unicorno”, ovvero una startup privata che vale più di 1 miliardo di dollari.
I rendimenti dei fondi VC europei
C’è da osservare che la precedente scarsità di capitale del continente non era causata da mancanza di rendimenti dei fondi di Venture Capital. Misurandone il Total Value to Paid In (TVPI, il parametro di misurazione delle performance dei fondi: il denaro restituito agli investitori più il valore corrente del portafoglio), il fondo VC medio europeo fondato negli ultimi due decenni non è andato materialmente peggio di quello medio americano. Per fortuna la esigua numerosità di quelli italiani pesa davvero poco sulla media europea, altrimenti il confronto sarebbe ben più pesante vista la redditività negativa di quasi tutti quelli nostrani – con ben poche eccezioni – dello stesso periodo.
I venture capitalist stanno inseguendo una generazione di startup europee che ha beneficiato del sentiero tracciato dai loro predecessori. Skype e Spotify possono non aver raggiunto le valutazioni vertiginose dei loro colleghi americani, ma hanno dimostrato che era possibile avviare una società tecnologica di successo in Europa e scalarla a velocità. Hanno anche fornito alle startup un pool di potenziali dipendenti e membri di consigli di amministrazione con una precedente esperienza di aziende innovative in rapida crescita. La combinazione di dirigenti con track record e l’accesso a talenti ha alimentato la crescita di un cluster di aziende europee fondate dopo le rovine della crisi finanziaria con gambe solide. Aziende che ora stanno raggiungendo la maturità e in alcuni casi iniziano a dominare le loro rispettive nicchie, come Spotify che è il leader nello streaming musicale, Klarna lo è nel buy-now-pay-later, tutti europei. Con i rendimenti nel mondo della tecnologia che fluiscono sproporzionatamente alle aziende al primo posto, questo rende oggi l’Europa una prospettiva troppo attraente per gli investitori globali perché venga ignorata.
Come sta cambiando la cultura del rischio in Europa
Aiuta anche il fatto che gli europei che lavorano per le startup stanno diventando crescentemente azionisti, con una maggior diffusione della cultura della partecipazione ai rischi e ai benefici di una scommessa tecnologica. La volontà dei lavoratori di essere parzialmente remunerati con le stock option, e la comprensione dei founder di quanto la condivisione del capitale sia strategica, rende più facile per le startup competere con le aziende più grandi per i migliori talenti.
Le tendenze tecnologiche hanno anche abbassato i costi e permesso agli aspiranti fondatori di far decollare le loro imprese a casa in Europa piuttosto che partire per la California. Un tempo l’avvio di un’attività su Internet comportava l’acquisto di bancali di server e lo spazio per immagazzinarli. L’avvento del cloud computing significa che le aziende possono invece affittare potenza di elaborazione da servizi cloud iperscalabili come AWS, Azure e Google Cloud, e affittare uffici più piccoli o direttamente postazioni operative nei coworking, risparmiando costi e soprattutto tempo di gestione di facilities fisiche ed informatiche. Nel frattempo, la pandemia ha costretto i gestori di fondi ad accettare di fare due diligence e accordi su Zoom. Questo abbassa l’importanza della vicinanza geografica.
L’Europa sarà fare tesoro del boom?
La questione vera, però, è se il boom porti l’Europa a costruire i suoi propri colossi tecnologici in stile americano, cioè perseguendo ambiziosissime disruption ad alto rischio nel tentare di trasformare intere industrie, oppure non generi un gruppo di aziende di medio livello che vengono poi assorbite da acquirenti più grandi, plausibilmente non europei. Questo distinguo, a sua volta, determinerà se il momento imprenditoriale del continente si spegnerà o se accenderà qualcosa di più grande, perché ogni grandissimo successo genera effetti virtuosi sul proprio territorio di origine in misura più che proporzionale alla sua dimensione: si pensi a che effetto possa avere sulla Silicon Valley l’ospitare gli headquarter di Facebook, Google o Apple, o per Seattle ospitare Microsoft, rispetto alle società anche di successo ma più piccole che vengono acquisite da loro.
La Ue è ostile all’imprenditoria?
L’idea di un’Europa ostile all’imprenditoria una volta sarebbe sembrata ridicola. Al suo apice nel XVII secolo, la fame di capitale della Compagnia olandese delle Indie Orientali era così vorace da richiedere l’invenzione del mercato azionario pubblico. Gli investitori di allora non si sono tirati indietro di fronte al suo trattamento violento delle popolazioni native. Secoli dopo, l’inizio del XX secolo ha visto la fondazione di giganti come L’Oréal, l’impero della bellezza che oggi guadagna di più, e la danese Ap Moller Maersk, la più grande compagnia di navigazione di container. La maggior parte delle aziende tedesche, che danno lavoro a oltre la metà di tutti i lavoratori del paese, sono nate nello stesso periodo, e così il Gruppo FIAT in Italia.
Che dopo questi fasti, un Continente distrutto da due guerre mondiali abbia prodotto molte meno imprese destinate a una crescita elevata nella seconda metà del XX secolo, non è forse sorprendente: l’Europa non ha mai recuperato il suo originario appetito per la creazione di imprese ad alta crescita. Guardando oltre oceano, solo andando a guardare gli ultimi tre decenni, l’America ha generato quattro colossi – Google, Amazon, Tesla e Facebook (ora conosciuta come Meta) – le cui valutazioni hanno superato i mille miliardi di dollari ciascuna. Nessuna delle giovani imprese europee, nel frattempo, è arrivata a cento miliardi di dollari. Un campione dell’onda delle dotcom degli anni 2000, Skype, è stato acquistato nel 2011 per 8,5 miliardi di dollari da Microsoft. L’altro, Spotify, vale oggi solo 48 miliardi di dollari. Sap, la società più vicina a un gigante tecnologico che il Continente abbia, è stata fondata tre anni prima di Microsoft e vale meno di un quindicesimo di questa.
Più soldi non è soluzione
Sta di fatto, in conclusione della riflessione, che è vero che i governi UE hanno ideato schemi per catalizzare la creazione di imprese per decenni, ma sempre con la sensazione di operare come apprendisti stregoni e con approcci semplicistici. Oggi, complice la parvenza di successo del “modello francese”, passa l’idea che la soluzione sia quella di “più soldi” da immettere nel sistema con denaro pubblico. Ma questa idea è spinta da operatori della finanza che guadagnano sulla base dei volumi gestiti e a prescindere dai risultati prodotti, si basa su quelle che nel mondo anglosassone vengono chiamate “vanity metrics” (cioè indicatori della vanità, quelli spendibili per dire che si sta avendo successo, che in Italia conosciamo molto bene dato che sono 10 anni che il Ministero dello Sviluppo Economico sbandiera il “numero di startup nel registro speciale” come se questo dato avesse qualche significato), mentre fa fatica ad affermarsi il principio che il capitale di rischio statunitense sia soprattutto un fatto di metodologie e cultura, di qualità di gestori con competenze tecnologiche profonde e di snellezza operativa nelle regole dell’allocazione del capitale, e che i grandi volumi finanziari siano la semplice conseguenza dei ritorni prodotti applicata alla massa di liquidità che ha inondato i mercati dall’inizio della pandemia in cerca di redditività. Da allora, le quattro più grandi Banche centrali del mondo hanno collettivamente pompato più di nove mila miliardi di dollari di liquidità nel sistema finanziario globale, facendo scendere i rendimenti delle obbligazioni. Questo ha spinto gli investitori in classi di attività sempre più rischiose alla ricerca di rendimenti e gli investimenti azionari early-stage in un continente precedentemente calcificato sono un candidato primario. Però i volumi di liquidità affidati agli esperti Venture Capitalist statunitensi (e britannici, e israeliani) sono cosa ben diversa da quanto sta succedendo in Europa con il denaro di Stato: in pratica in Europa si opera per scimmiottare un effetto, distribuendo soldi a pioggia su gestori di Venture Capital iper-regolati ed avvezzi a logiche di gestione da contenimento del rischio, applicabili a modelli di gestione di impresa prudenziali e ad innovazione che finisce per scalare poco: lo “small cap private equity”, che continuo a dire in ogni sede che non è Venture Capital, e non ne può produrre gli effetti. Mentre purtroppo non si agisce sulla causa naturale della crescita dei volumi di investimento canalizzata su una crescente domanda di capitale di rischio da parte di startup iper-ambiziose basate su innovazioni dirompenti, ben diversamente da quanto successo negli USA, nel Regno Unito ed in Israele.
Gli effetti della Brexit sul Venture Capital europeo
Proprio la Brexit, infine, rischia di essere la causa della maggiore frenata della crescita dell’industria UE del Venture Capital: fino a 24 mesi fa, la maggior parte delle allocazioni dell’European Investment Fund – (EIF) il maggior sottoscrittore pubblico di Venture Capital del continente, in pratica il “Fondo Sovrano Europeo” – andava verso gestori britannici, basati a Londra, che era il solo vero ecosistema con una cultura e maturità di settore comparabile con quella statunitense ed israeliana. L’uscita del Regno Unito ha bloccato questa allocazione, implicitamente virtuosa e soprattutto portatrice di una grande contaminazione culturale multilaterale (sia tra l’ecosistema londinese e lo stesso FEI che con gli altri poli “minori” che sono nati nel continente), dirottando grandi masse di liquidità verso sistemi molto meno maturi di quello britannico, che ormai non è più il metro di paragone all’interno dell’Unione Europea.
E se diversi gestori basati a Londra si sono velocemente trasferiti a Parigi ed Amsterdam, la maggior parte sono rimasti là preferendo non assoggettarsi alle normative dei paesi UE sottoposti alla direttiva AIFM che irrigidisce di molto la gestione dei fondi di Venture Capital, rendendo intrinsecamente impossibile sostenere la velocità e snellezza operativa di gestori che operino fuori dall’Unione Europea, anche per colpa delle Banche centrali dei singoli Stati membri che guardano molto più al rispetto della “liturgia” della gestione dei capitali che alla sostanza delle finalità dell’investimento in capitale di rischio.
Di fatto, quindi, perdendo Londra abbiamo perso l’ecosistema “primo della classe” con cui tutti gli altri erano costretti a confrontarsi, abbassando così l’asticella. Di conseguenza se il vecchio continente vede sì una impennata fortissima nella quantità e qualità della domanda di capitale di rischio da parte di imprenditori più consapevoli sullo strumento e startup ad ambizione globale, nel frattempo cva male l’offerta del capitale medesimo con disponibilità sì incrementale di denaro ma non accompagnato dalla medesima crescita di competenza nella gestione né da una cornice regolamentare capace di competere con VC non europei.
La (fragilissima) situazione in Italia
In questo scenario continentale, l’Italia cresce raddoppiando il volume annuo di investimenti quasi esclusivamente grazie a due fattori: gli investimenti crescenti fatti nel Paese da operatori esteri (statunitensi, russi, europei) e quelli diretti di CDP Venture Capital, che è il nostro “fondo sovrano” che grazie al cielo oltre a distribuire denaro a Venture Capitalist indipendenti sta anche allocandone grandi volumi direttamente ed assumendo un grandissimo numero di talenti anche facendoli rientrare dall’estero. Rimane però una situazione fragilissima, che per consolidarsi facendo fare un balzo all’Italia richiederebbe almeno tre linee di azione molto drastiche:
- Che Banca d’Italia, spinta da una politica che divenga consapevole di un grave gap strategico, riveda la regolamentazione del settore eventualmente applicando le policy e le procedure più “agili” che si siano applicate in altri Stati UE nel recepire la direttiva AIFM;
- Che CDP Venture Capital adotti politiche molto più “coraggiose” nella gestione dei propri Fondi di Fondi, magari incentivando gestori di successo dagli USA, dal Regno Unito e da Israele ad aprire degli uffici qui, nonchè selezionando nuovi gestori locali – magari concentrati su pre-seed e seed stage, con competenze di matrice tecnologica tra i founder di successo e tra i gestori di acceleratori, molto più adeguati a diventare gestori di Venture Capital di bancari e gestori di fondi di Private Equity;
- Che nasca almeno un ulteriore Fondo di Fondi di ambizione nazionale, ovvero un grande Limited Partner dedicato ad allocazione massiccia verso una industria italiana del Venture Capital, alternativo a CDP Venture Capital, per instaurare logiche di frazionamento del rischio e dinamiche di sana concorrenza (magari procedurale) tra Fondi di Fondi, possibilmente sotto un gestore di natura privata.