l'analisi

Venture Capital, l’Italia comincia a fare sul serio: i passi avanti e cosa resta da fare

Dopo dieci anni di “circo delle startup”, finalmente l’azione di Cdp ha dato una importante scossa verso un modello di venture capital “knowledge based”. Quel modello proprio dei veri ecosistemi internazionali. Tutto bene, quindi? Non proprio, resta ancora qualche problema

Pubblicato il 20 Ott 2022

Gianmarco Carnovale

Serial tech-entrepreneur

venture-capital-VC

Recenti dati rilasciati da Cassa Depositi e Prestiti e da AIFI hanno mostrato l’andamento degli investimenti in capitale di rischio in Italia, evidenziando la robusta crescita di un settore che raddoppia di dimensione.

Il segnale è forte: molti capitali italiani si stanno attivando e l’Italia è oggetto di interesse da parte degli investitori esteri. Ma un ecosistema startup sano è fatto di diverse componenti che nel Paese sono ancora disfunzionali, e una strategia di recupero del gap con gli altri Paesi non può basarsi solo sull’accesso al capitale, benché questo sia ovviamente il solo ruolo che può svolgere CDP Venture Capital. Cos’altro serve?

Francesca Bria: President CDP Venture Capital – Italian National Innovation Fund

Francesca Bria: President CDP Venture Capital – Italian National Innovation Fund

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Lo stato dell’arte del venture capital italiano

Il venture capital italiano è finalmente in netta espansione, come emerge dall’aggiornamento trimestrale a settembre 2022 del Rapporto di ricerca Venture Capital Monitor – VeMTM sulle operazioni di venture capital in Italia presentato da AIFI – l’associazione di riferimento del Venture Capital e del Capitale Privato in Italia -con l’obiettivo di sviluppare un monitoraggio permanente sull’attività di investimento early stage istituzionale svolta nel nostro Paese.  Secondo il rapporto, i primi nove mesi del 2022 si chiudono con 250 operazioni di investimento tra initial e follow on; erano 230 lo scorso anno, segnando +9% in numerosità. Se si guarda solo ai nuovi investimenti, definiti initial, questi sono stati 223 rispetto ai 208. Per quanto riguarda l’ammontare investito sia da operatori domestici che esteri in startup italiane, però, si osserva il boom: il valore si attesta a quasi 1,7 miliardi di euro distribuiti su 234 round, in aumento rispetto a poco più di 800 milioni per 207 operazioni dei primi tre trimestri del 2021. Siamo al raddoppio.

I dati del report si allineano con quanto evidenziato nell’incontro “Il Venture Capital per il futuro dell’economia italiana” da Cassa Depositi e Prestiti e da Cdp Venture Capital, alla presenza dell’Amministratore Delegato di Cdp Dario Scannapieco, del direttore Strategie Settoriali e Impatto della capogruppo Andrea Montanino, e dell’Amministratore Delegato della controllata Cdp Venture Capital – dedicata al settore – Enrico Resmini.

Partendo dai numeri, quello che si evidenzia è il forte stanziamento su Cdp Venture Capital che complessivamente arriva a 5,3 miliardi di euro di capitali gestiti tra stanziamenti governativi, del Pnrr, delle risorse di Cdp stessa e raccolti dal mercato rispetto agli 1,8 miliardi attuali, con una crescita di 3,5 miliardi. Dello stanziamento iniziale, Cdp Venture Capital nei primi due anni di attività ha deliberato circa un miliardo di investimenti con un effetto positivo per oltre mille startup direttamente o indirettamente beneficiate dall’effetto leva prodotto, mostrando una velocità impensabile di costruzione della complessa macchina organizzativa di cui va riconosciuto grande merito all’AD Enrico Resmini, che ha costruito da niente una squadra di quasi duecento persone di grande talento e professionalità.

Venture capital in Italia: dal 2021 una nuova fase, ora è il momento della maturazione

Ancor più del consuntivo della somma, è interessante osservare alcuni numeri di dettaglio circa l’effetto di infrastrutturazione che Cdp Venture Capital sta avendo sull’ecosistema del Paese: 18 programmi di accelerazione, 5 poli di trasferimento tecnologico, oltre il 50% di investimenti internazionali su imprese italiane, e 22 nuovi fondi di gestiti da terzi. “E il 65 sono fondi first time first team”, come sottolinea Resmini. Quindi nuovi operatori che si affacciano a cogliere le opportunità di un mercato da costruire, perché sostanzialmente assente nel Paese.

I 3,5 miliardi aggiuntivi che sono stati accordati saranno destinati verso tre settori ritenuti fondamentali: 1,5 miliardi per potenziare l’infrastruttura indiretta del venture capital, un miliardo per le “fasi di growth e late stage del sistema di venture capital” e un miliardo per investire in settori e tecnologie strategici come aerospazio e LifeScience.

Startup, verso un modello “knowledge based” (con buona pace del wannabeVC)

Tutto bene, quindi? Beh, è certo ed indiscutibile che dopo dieci anni di “circo delle startup” (perfino nel mondo anglosassone usano definire “startup theatre” quella parte di industria millantata e presidiata da attori molto più raccontati che competenti, ma bravi a comunicare e stringere rapporti con i media), che in un Paese “relationship based” come l’Italia è diventato particolarmente radicato, finalmente l’azione di Cdp ha dato una importante scossa verso un modello “knowledge based”.

Quel modello proprio dei veri ecosistemi internazionali che – lo si vede dall’interno – è particolarmente osteggiato da tutti i personaggi in cerca d’autore del suddetto circo, che in questo decennio hanno presidiato militarmente la scena nazionale votandosi all’estrazione di valore, e che all’arrivo di Cdp sulla scena speravano che i soldi di Stato finissero nelle tasche del loro ‘sistema’ fatto di pochi gestori di fondi che si spartiscono le startup su cui fare investimenti in chat private in cui decidono chi di loro faccia una proposta e a che termini, che ridistribuiscono i fondi investiti attraverso un network “fidato” tramite l’imposizione, alle startup investite, di assumere o foraggiare certi manager e consulenti a tariffe (esorbitanti) concordate, e chiudendo il cerchio con amici giornalisti a cui dettano notizie e commenti ad usum populi.

Questo piccolo giro di teatranti e presunti Venture Capitalist (per descriverli ho coniato da un paio d’anni l’hashtag #wannabeVC che sembra essere particolarmente apprezzato da molti founder sui social), dal primo giorno dell’era Cdp Venture Capital si raduna in “consigli di guerra” che hanno per oggetto sempre e solo tre punti: 1. Come fare ad impedire che nuovi VC arrivino sul mercato italiano senza unirsi al cartello; 2. Come fare ad impedire che Cdp Venture Capital faccia investimenti diretti, visto che non fa cartello; 3. Come fare a mettere le mani sui soldi di Cdp Venture Capital, sui quali ritengono di accampare diritti, facendo leva su politica accerchiamenti mediatici.

Questi soggetti, che desiderano quindi ciò che è l’esatto contrario del bene del Paese, sono dei piccoli gatekeeper fortunatamente sempre più marginali sulla scena, e per capirlo è sufficiente vedere quanto – nella crescita verticale dei capitali allocati – attori che secondo certa stampa sarebbero protagonisti del settore nel Paese e quotidianamente intervistati o messi su un palcoscenico per i loro presunti meriti, siano del tutto assenti dai round di finanziamento importanti che iniziano a formarsi con l’intervento dei fondi di Venture Capital internazionali nelle startup di maggior successo; evitati, quindi, da fondi sempre aperti a co-investire con fondi locali ma a condizione di trovare una una cultura simile, e che le opportunità condivise siano davvero tali: pensate e gestite con competenza per portarle a successo, e non piegate su logiche estrattive.

Aspetti problematici dell’ecosistema sui cinque pillar

Se quindi l’obiettivo dichiarato da Cdp di arrivare ad oltre 100 gestori di Venture Capital attivi nel Paese è un cambio di passo rispetto ad una stagione in cui vi era solo un piccolo numero di pochi gestori (di cui solo un paio, grosso modo, cercavano di operare con criteri internazionali e fuori dal cartello), e che questa azione può definitivamente risolvere il problema dell’accesso ai capitali da parte delle nuove iniziative imprenditoriali basate su innovazioni technology-driven e ad alta ambizione vissuto dal Paese, è però vero che altri aspetti dell’ecosistema restino ancora problematici.

Vediamo quali.

Ricordiamo che è cosa ormai ben consolidata e nota a livello internazionale che le colonne portanti del successo di un solido ecosistema startup siano cinque:

  • 1. Cultura (di settore);
  • 2. Talento;
  • 3. Densità;
  • 4. Cornice legislativa;
  • 5. Accesso ai capitali.

Analizzo brevemente il loro stato nel Paese, partendo dalla fine.

Accesso ai capitali

Come stiamo osservando, è un problema in via di risoluzione grazie all’azione determinante di Cdp Venture Capital che sta agendo contemporaneamente da innesco (con la portata degli stanziamenti, finalmente più proporzionati alla dimensione di un Paese che intenda rimanere tra le grandi economie, anche se gli altri stanno già rilanciando e rischiamo che non basti); da costruttore dell’industria (con gli investimenti indiretti in nuovi gestori e la loro attrazione dall’estero, ma anche con i poli di technology transfer e gli acceleratori); da “modello culturale” (con gli investimenti diretti).

In effetti è ciò che serviva, dato che non sono mai stati i capitali a mancare, nel Paese, ma la loro accessibilità. Se si vuole trovare margini di miglioramento sull’azione di Cdp, queste vertono sull’indiretto e sugli acceleratori: l’attività indiretta va bene sotto il profilo quantitativo (ben 22 nuovi fondi messi in campo in due anni, attività coordinata con molta competenza da Cristina Bini), ma è necessario avere molto più coraggio nel dare maggiore flessibilità di azione ai nuovi gestori anziché essere tentati da istinti di micromanagement, lasciando quindi che i fondi investiti possano avere tesi di investimento più ampie e vadano anche in conflitto e concorrenza tra di loro, dato che è esattamente la concorrenza a creare valore. Inoltre, va concentrata molta più potenza di fuoco nella creazione di fondi pre-seed e seed, dato che il vero fallimento di mercato del Paese si trova là e non si può pretendere che quella fase sia coperta esclusivamente dagli acceleratori. Anche l’attività di Fondo Acceleratori deve evolvere verso un perimetro più allargato: 18 acceleratori aperti dal fondo guidato da Stefano Molino in due anni sono, come per il Fondo di Fondi, un lavoro quantitativamente poderoso di cui va dato merito. Ma non sui soli acceleratori si basa l’origination dell’ecosistema, e soprattutto non su acceleratori basati sul replicare un format rigidamente basato su mettere insieme un acceleratore internazionale più un partner locale più un paio di corporate di settore, che investano un ticket più o meno standard di cui spesso la startup deve restituire una buona parte comprando servizi. Quel modello sembra legato a schemi tradizionali da “corporate accelerator”, ottimo per generare innovazione tattica per le aziende partner ma da cui però non sono mai usciti in nessun paese dei grandi risultati in termini di disruptive innovation. Non vanno condannati, ma non bastano davvero a costruire delle imprese ad alta ambizione: serve affiancargli anche uno schema di sviluppo di venture accelerators e di venture studios slegati dalle corporate, che sono i modelli di factory su cui altri Paesi fondano la creazione di dealflow di maggiore ambizione.

Cornice legislativa

Si potrebbe scrivere un’enciclopedia solo su questo punto. La verità però è sintetizzabile intorno al fatto che Francia e Germania dimostrano che, se tutto il resto funziona, la cornice legislativa arcaica non è un elemento bloccante. Ma rimane vero che bisogna fare passi avanti su alcuni colli di bottiglia intorno al diritto societario, alle logiche del registro delle startup, agli incentivi per gli investitori privati, ai meccanismi contributivi, alla costituzione societaria: tutti aspetti che sono facilmente gestibili quando si è grandi e/o capitalizzati ma che possono uccidere il bambino in culla o non farlo nascere del tutto. Un grande Paese favorisce l’accesso all’impresa ed all’ascensore sociale, fondato su talento e capacità di mettersi in gioco, anche a chi non ha i duemila euro per il notaio.

Densità

La densità nella rete globale degli ecosistemi startup viene ritenuta l’elemento centrale, perché è la prossimità tra attori ad innescare quella condivisione di conoscenza e quel confronto coopetitivo che portano ad una velocità di adozione delle practices e di esecuzione di investimenti e progetti di impresa che sono imprescindibili nell’economia dell’innovazione. E qui arriva un problema enorme, immenso in Italia, basato su un assunto che molti non vogliono proprio digerire, e cioè il non doversi fare mille orticelli sotto casa di ciascuno.

Qualcuno concorda su questo assunto solo per sostenere la concentrazione su Milano, luogo che però di una startup city possiede sì la (poca e conservativa) finanza, ma manca di altre condizioni essenziali quali costo e qualità della vita e massa critica per crescere su settori verticali che non siano il fintech e poco altro. Ora, l’Italia ha una conformazione geografica che necessita chiaramente di più poli ad alta densità di attori dell’innovazione che a loro volta si creino una rete di luoghi satellite con cui collaborare. Ma la numerosità di questi poli non può prescindere dalla maturità del Paese. In questo decennio, i pochi attori finanziari e la stampa attiva nella narrativa hanno centrato il racconto su Milano, perfino a costo di non investire su eccellenti opportunità che non fossero là basate o non accettassero di basarvisi, pur di alimentare un racconto di “polo”, con modalità somiglianti ad una profezia forzosamente autoavverante.

Ma la realtà è che, mentre a Milano si parlava di startup e venture capital ma in larga misura con questi termini si intendevano piccole imprese digitali non scalabili e private equity di piccolo taglio, e che solo nell’ultimo triennio si sia iniziato a diffondere più venture business, a Roma pur con pochissimi capitali si lavorava già da un decennio a costruire una filiera piccola ma totalmente concentrata sulle metodologie di venture design dettate dalla cultura internazionale, intorno all’idea chiara che l’Italia abbia bisogno di creare almeno due main hub intorno a Milano per il nord e a Roma per il centro-sud, perché la distanza geografica ma anche culturale tra le due aree è eccessiva perché un solo luogo possa sostenere l’intero Paese. In queste due città, che hanno costruito percorsi molto differenti per valorizzare i differenti asset di valore ed i rispettivi gap nell’economia dell’innovazione, devono quindi moltiplicarsi i team di investimento istituzionali, ed il progetto di aprire a Roma una casa del Venture Capital in capo a Cdp – prima avviato e poi cancellato – era un’ottima idea per far sì che anche il centro e il sud avessero un polo di prossimità in cui posizionare l’attività di gestione legale, finanziaria e di marketing, mantenendo la gestione della tecnologia nei territori di provenienza. Altrimenti, come avviene da un decennio intorno al nefasto “modello dual company”, le startup di queste aree trovano più logico – se proprio devono trasferirsi per raccogliere capitali – andare direttamente all’estero, in un grande polo del Venture Capital di classe globale, che non spostarsi al nord Italia. In rete con Milano e Roma, poi, le altre città nelle rispettive prossimità dovrebbero costruire un proprio percorso di sinergia e di specializzazione intorno ad università e centri di ricerca, e con gli incubatori locali, maturando con il tempo e con quella massa critica nell’importazione di conoscenza che renda giusto ambire a diventare a loro volta degli hub.

Gli USA, decenni avanti a noi, non sono più concentrati nella Bay Area e a Boston ed hanno generato decine di validissimi ecosistemi più piccoli e decentrati: ma ci hanno messo, appunto, decenni durante i quali operavano come satelliti dei grandi hub. E qui viene quindi la seconda correzione di rotta che dovrebbe considerare Cdp, che ha sparpagliato sull’intera geografia del Paese 18 acceleratori aprendone anche in luoghi privi di un ecosistema e di competenze atto a supportarli o di renderli capaci di essere attrattivi.

Sembrerebbe esser stato ripetuto l’errore di chi ha voluto qualche anno fa far atterrare l’acceleratore internazionale TechStars a Torino, dove mai questa organizzazione avrebbe aperto di propria spontanea iniziativa ma lo ha fatto perché sovvenzionata nell’apertura. Il risultato è che si sono disperse energie in una città priva di un ambiente pronto ad ospitare un acceleratore internazionale ed attrarre team di qualità, e che difatti non ha mai neanche avvicinato le performance degli altri acceleratori TechStars nel generare un buon dealflow. Se i 18 acceleratori di Cdp fossero stati concentrati in pochi luoghi circoscritti contribuendo alla loro densità fisica e di know-how, ritengo che avrebbero ben altra efficacia ed altro impatto. A ben vedere, nel resto del paese si sarebbe piuttosto dovuto pensare di avviare molti pre-acceleratori appoggiati sulle università e privi di fase di investimento, focalizzati sulla formazione ed emersione di talenti, e non tanti acceleratori stand alone che sono la prima fase di allocazione del capitale di rischio e che necessitano di collocarsi in reti di prossimità che possono costruirsi solo in luoghi ad altissima densità e ad alta attrattività e qualità di vita verso i talenti su cui investire, dato che devono attirare intorno a sé delle comunità numerose di mentor, advisor, angel e fondi di investimento esperti, sia locali che internazionali, che non si avranno mai in località piccole, prive di peers locali, e in luoghi difficili da raggiungere.

Talento

L’unico problema inesistente, nel Paese. Ne abbiamo talmente tanto che ne esportiamo. Difatti, era offensiva ma anche esilarante la pretesa dei wannabeVC italiani di giustificare gli insuccessi dei loro fondi con una presunta bassa qualità delle imprese italiane. Sono sempre stati loro ad essere incapaci di identificare le opportunità valide e di investirci a condizioni di mercato, e pur di non ammetterlo tentavano di darne la colpa alla qualità imprenditoriale del Paese. Sono stati smentiti direttamente dai fatti rappresentati dalle startup di italiani investite all’estero, che hanno iniziato a raccontare che avevano dovuto emigrare a causa delle condizioni di investimento inaccettabili proposte dai gestori locali.

Cultura

Ovviamente si intende la cultura di settore, che deve essere necessariamente allineata in tempo reale a quella degli ecosistemi internazionali intorno a modelli di venture design, di lean management, di termini di investimento, di advisory, di metriche ed obiettivi. Cdp Venture Capital sta agendo bene sul fronte di quella di alcune categorie di operatori del venture business – come i gestori di fondi e gli acceleratori – ma nulla può verso ciò che viene insegnato nelle università (sono occasionali quelle che hanno compreso che insegnare a fare startup non ha niente a che vedere con spin-off da ricerca o con le metodologie della piccola impresa), o verso i modelli di investimento di molti investitori casual come business angel e family officers che rifiutano le pratiche internazionali e manifestano tutta la loro incompetenza ogni qual volta li senti argomentare sui motivi per cui rifiutano di sottoscrivere investimenti in convertendo. Ancora una volta, il modo per diffondere una vera cultura di settore dovrebbe essere quello di identificare al massimo un paio di poli geografici ad alta densità, all’interno dei quali favorire reti trusted di soggetti che identifichino immediatamente chi non conosce o disapplica le metodologie di settore, per provare a formarli oppure decisamente espellerli prima che facciano danni. Perché ancora non è chiaro, nel Paese, che un cattivo o millantato advisor, un cattivo incubatore, o un pessimo investitore, sono quanto di peggio possa capitare ad un team di talenti con un buon progetto di impresa che verrà distrutto da questi estrattori di valore, che ruberanno al team anche qualche anno di vita.

Conclusioni: che deve fare la politica

La maggior parte dei margini di miglioramento descritti nei cinque pillar di un ecosistema startup, che normalmente passa da zero a piena maturità nell’arco di uno o due decenni, ovviamente non possono dipendere da Cdp Venture Capital che è in grado di agire solo sugli ambiti di accesso al capitale (lo sta facendo quasi perfettamente), di cultura (lo sta facendo bene, dove ne ha la possibilità, cioè sul mobilitare i capitali privati), e di densità (ehm… spero che mi si perdonino le critiche costruttive, ma qui c’è grande margine per fare meglio).

Sugli altri pillar sarebbe davvero ora che la politica si attivasse per creare un vero centro di competenza, un’agenzia, una fondazione, un qualcuno che si occupasse di tutto ciò di cui non può occuparsi Cdp, ovvero agendo direttamente sulla cultura di settore degli operatori attivi e di quelli potenziali, nonché sull’addestramento dei talenti, e magari aiutando il Governo a risolvere i troppi colli di bottiglia e le stratificazioni normative che ancora oggi frenano e mortificano il potenziale dei nuovi imprenditori.

In altre parole: se fino ad oggi abbiamo copiato la Francia ed Israele per la parte dei capitali, prendendo a modello BPI France e Yozma, adesso è davvero ora che venga istituito un soggetto che mutui il ruolo che, in questi due paesi, hanno La French Tech e lo Israeli Innovation Institute. Facendo attenzione, ovviamente, a non coinvolgervi nessuno dello startup theatre di cui si è già scritto, perché si farebbe presto a fare a ritroso i passi avanti che abbiamo fatto nei primi due anni di attività di Cdp Venture Capital.

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