Con le misure contenute nel decreto Crescita sulle Società di Investimento Semplice (SIS) e con l’ultimo decreto ministeriale del Mise sui nuovi Piani Individuali di Risparmio (PIR), sembrano essersi completate le azioni legislative concepite dal Governo a favore del venture capital.
Ovviamente la fase di attuazione significherà molto, ma già ora è possibile effettuare una analisi su cosa è stato delineato e su quello che potremmo attenderci.
Purtroppo è evidente il tentativo – in parte riuscito – delle lobby della finanza tradizionale di depotenziare il piano del Governo.
La Società di Investimento Semplice
La SIS, acronimo che sta per Società di Investimento Semplice, è la risposta del Governo al muro irragionevole che è stato opposto da Banca d’Italia alle esigenze di mercato per avere uno strumento societario a bassa onerosità e complessità di gestione per fondi di investimento di taglia medio piccola: se fino al 2015 infatti la situazione italiana sembrava sufficientemente agile e deregolamentata, il recepimento della Direttiva AIFM da parte del nostro istituto centrale ha istantaneamente irrigidito con una doccia fredda gli operatori che si stavano avviando ad operare, sostanzialmente dicendo che a prescindere se si gestisca un euro o duecento milioni, il tipo di onerosità richiesta è la stessa.
Il risultato è stato quello di uccidere tutti i mini-fondi di investimento per la fascia Seed, in quanto – da calcoli fatti – la soglia minima di convenienza per avviare un fondo rispetto ai costi di gestione imposti ad una SGR vigilata – struttura comunque ingessata ed inadatta ad operare in tale fascia – si aggira intorno ai 30 milioni.
Il braccio di ferro istituzionale sulla Sis
La SIS è stata oggetto di un feroce braccio di ferro istituzionale combattuto fuori dai riflettori: stralciata da “manine” misteriose da diverse proposte di legge, ed inizialmente prevista come veicolo totalmente deregolamentato e libero da vigilanza, è infine diventata oggetto di trattativa tra la struttura del MiSE e quella del MEF (per conto di Banca d’Italia). Alla fine Banca d’Italia, che come tutte le istituzioni autoriferite vive nella necessità di giustificare la propria esistenza, ha ottenuto di evitare il per lei pericoloso precedente di una tipologia di soggetto totalmente fuori dalla vigilanza.
Il risultato è che ha quindi accettato, con quattro anni di ritardo che costituiscono un gravissimo danno inferto alla scena italiana di cui è totalmente responsabile, una forma di società di investimento vigilato ma con oneri estremamente “leggeri”.
La SIS è quindi sostanzialmente una SICAF – una forma alternativa alla SGR già esistente – che può essere gestita da soggetti dotati dei semplici requisiti di onorabilità, e che può raccogliere un massimo di 25 milioni di Euro.
I vincoli sulle Sis
I vincoli in capo a questo nuovo veicolo sono che gli stessi gestori non possono superare la soglia fissata neanche attraverso più SIS, e che la SIS è obbligata alla raccolta esclusivamente attraverso investitori istituzionali.
Il primo vincolo farà sì che il taglio delle SIS si consoliderà presumibilmente intorno alla metà della soglia, per consentire di avviare la raccolta di nuovi veicoli quando i precedenti sono ancora in vita.
Il secondo vincolo invece è una faccenda seria: la gestione del rischio in questo paese è un oggetto culturalmente alieno e già oggi i fondi a viglianza “piena” raccolgono dagli istituzionali a condizione di non investire in Seed, rimane quindi difficile immaginare che dei veicoli dedicati a questa fascia di investimento riescano a fare raccolta su questi investitori. Sarebbe stato infinitamente meglio consentire loro di raccogliere anche sui business angel e soggetti a questi assimilabili.
Il lato positivo della faccenda è che, essendo le SIS degli OICR a tutti gli effetti (è la definizione europea per gli organismi di investimento collettivo del risparmio), godono dei vantaggi della Capital Market Union dell’Unione Europea e potranno andare a raccogliere anche all’estero. Ad ogni modo il tema della raccolta delle SIS sarà il vero tema di ulteriori affinamenti dello strumento per consentirgli di operare sul mercato in modo efficace.
I Piani Individuali di Risparmio (PIR)
Andando ai PIR, invece, la storia si fa significativamente diversa: il decreto ministeriale rispecchia la norma contenuta in finanziaria, per cui è previsto che il 3.5% della raccolta dei Piani Individuali di Risparmio – strumento di incentivazione attivo già da due anni – debba essere obbligatoriamente allocato in fondi di Seed/Venture Capital che investano in startup italiane.
Anche questa manovra è stata oggetto di numerosi sabotaggi nonché di uno scontro istituzionale senza precedenti: da una parte la volontà ferrea del team del Ministero dello Sviluppo Economico e del Ministro Luigi Di Maio di portare a casa questa fonte di liquidità per il venture capital, dall’altra parte Assogestioni (l’associazione delle società che gestiscono i PIR) e una gran parte della finanza tradizionale, ancora una volta difesi dal MEF i cui dirigenti appaiono sempre più come gli ultimi Mandarini a difesa dello status quo, assolutamente non intenzionati a mollare l’osso.
Lo scontro si è protratto non senza feriti: perfino dall’interno del MiSE sono state tentate azioni di sabotaggio con una proposta di emendamento alla norma in finanziaria, finalizzata a differire l’efficacia della norma, tentata da un Dirigente senza interpellare il Ministro e il team che lavorava sull’argomento, a dimostrazione di quanto sia lobbisticamente potente il mondo della finanza tradizionale.
Scoperto il tentativo di blitz, la battaglia si è spostata nella negoziazione con il MEF, con riunioni su riunioni. Non è passato alcun tentativo di mediazione, ed è finita che al MiSE hanno deciso di procedere senza modifiche rispetto al progetto iniziale, arrivando quindi al Decreto Ministeriale per delinearlo nei termini stabiliti dalla Finanziaria.
Il problema è che a questo punto questa sembra una vittoria di Pirro: la riluttanza dei gestori a sottostare a questo obbligo li sta portando a non proporlo più alla clientela, per cui la raccolta totale prevista di PIR per il 2019 sembra essere nell’ordine di un solo miliardo di euro (contro i dodici del primo anno). Questo significa che il lungo braccio di ferro porterà ai fondi di Venture Capital italiani un ammontare intorno ai 35 milioni per quest’anno, una goccia di pioggia nell’assetato deserto delle startup tecnologiche italiane.
Le mosse del Governo
A questo punto bisognerà capire se e come Di Maio agirà per favorire ulteriormente l’afflusso di liquidità sul mondo del venture investing, e qui tutto potrebbe giocarsi intorno al come il nascituro Fondo Nazionale per l’Innovazione (di cui è uscito il decreto il 31 luglio 2019)– il Fondo di Fondi istituzionale che nasce sotto Cassa Depositi e Prestiti – agirà per creare un vero ciclo virtuoso di mercato. Se sarà un semplice salvadanaio per gli operatori del Venture Capital, come è stato fino ad oggi FII, ma con semplicemente un po’ più di disponibilità, è molto probabile che l’effetto sulla scena italiana sarà estremamente limitato.
Se invece sarà gestito come strumento di politica attiva, come è stato negli anni ’90 per l’omologo Yozma lanciato da Israele per creare l’industria del Venture Capital locale, vincolando l’erogazione a fondi operanti localmente ma con team con presenza obbligatoria di partner aventi già comprovata esperienza internazionale, allora si può immaginare un salto avanti quanto meno culturale unito ad una maggiore rassicurazione dei sottoscrittori privati dei fondi data dal track record di chi ha già fatto venture capital con successo, caratteristica oggi inesistente tra gli operatori italiani.
Teniamo in mente anche le debite proporzioni: Yozma con un miliardo di euro creò l’industria del Venture Capital in uno Stato delle dimensioni e dalla popolazione paragonabile a quella del Lazio. La stessa somma in Italia potrebbe essere ampiamente insufficiente.
Ma non è tutto: la regola di base da tenere in mente è che la finanza è liquida, e arriva da ovunque verso ovunque, a condizione che ci siano le opportunità di investimento. Purtroppo la scena imprenditoriale italiana, pur ricchissima di talenti e di ricerca, da questo punto di vista soffre ancora di numerosi colli di bottiglia e vincoli legislativi, oneri burocratici, insensatezze fiscali.
I migliori potenziali imprenditori italiani continuano a spostarsi già dalle fasi iniziali e ben prima di aver bisogno di Seed o di Venture Capital verso sistemi nazionali più avanzati in cui la burocrazia è accettabile ed in cui la stabile cultura del venture investing fa attuare pratiche internazionali, in cui esiste una moltitudine di acceleratori, di mentor, di advisor, di soggetti specializzati e non in confusione come in Italia.
Oggi ci si può permettere facilmente di fare i pendolari con Londra, Berlino, Parigi, Barcellona, che offrono condizioni ancora imparagonabili con l’Italia. Il salto quantico che il Ministro desidera attuare non si ottiene solo aprendo i rubinetti della finanza, c’è bisogno di azzerare l’onerosità del tentare di fare impresa, e di iniziare a fare attrazione, di concentrare in hub ed internazionalizzare la nostra scena, assolutamente sparpagliata e troppo autoreferenziale.