La globalizzazione dell’economia non si traduce soltanto in globalizzazione dei mercati, ma anche in globalizzazione dei fattori produttivi, e quindi in una deterritorializzazione – oltre che in una dematerializzazione – dell’economia.
Contraffazione web: basi giuridiche e strumenti concreti per una difesa efficace
I prodotti tipici si fondano invece su un elemento di localizzazione forte, sul quale le denominazioni che denotano l’origine di questi prodotti pongono l’accento: ma questo elemento fortemente “local” ha sempre più bisogno di una tutela “global”, cioè di una tutela che operi non solo nei Paesi di origine, ma anche sugli altri mercati nei quali questi prodotti vengono esportati.
Sotto questo profilo, tuttavia, la strada da percorrere è ancora lunga: mentre infatti la protezione oggi accordata a queste denominazioni è di regola intensa nei loro Paesi di origine, siamo ancora molto lontani da una protezione soddisfacente di esse al livello globale che oggi caratterizza gli scambi commerciali.
Le cause della mancata tutela globale dell’agroalimentare italiano
Ciò probabilmente è dovuto al fatto che, a differenza di altri settori, come quelli dei marchi e dei brevetti, nei quali la posizione dei Paesi più economicamente avanzati è sostanzialmente omogenea, qui è fortissima la contrapposizione di interessi fra i Paesi (e il nostro è in prima fila) che hanno una forte tradizione nella produzione di prodotti agroalimentari di qualità caratterizzati localmente, e quelli che non hanno una tradizione di questo genere.
Chi non ha questo tipo di tradizione tende a favorire i propri produttori, che vogliono usare denominazioni e simboli che richiamino le tradizioni a cui si ispirano, mettendosi commercialmente “al traino” e dando vita al fenomeno che, per i nostri prodotti, è noto come “Italian Sounding”.
Questa disomogeneità di interessi spiega perché lo standard minimo di tutela che il cosiddetto TRIPs Agreement impone ai Paesi aderenti al WTO di accordare è per le indicazioni geografiche ancora estremamente basso: la norma del TRIPs Agreement che concerne in generale le indicazioni d’origine (art. 22) le tutela infatti soltanto contro l’inganno del pubblico, mentre l’uso di esse con locuzioni come “tipo”, “modello” e simili, che non determinano inganno sull’origine del prodotto, ma comportano certamente un agganciamento alla reputazione del prodotto “originale”, viene repressa solo per le indicazioni relative ai vini, per i quali tradizionalmente il livello di protezione è più elevato (art. 23).
Più efficaci si sono dimostrati taluni accordi settoriali, come la Convenzione di Stresa del 1951 in materia di formaggi, mentre anche gli accordi bilaterali si sono quasi sempre limitati, con poche eccezioni, a intese tra Paesi che conoscono entrambi denominazioni famose, delle quali, per così dire, si “scambiano” la protezione. Più di recente sono stati siglati accordi “di seconda generazione”, soprattutto tra l’Unione Europea e altri Paesi, per particolari settori o su specifiche denominazioni.
La legislazione comunitaria sulle denominazioni dell’agroalimentare di qualità
Più sviluppata e coerente – data la maggiore omogeneità degli interessi da tutelare – è la legislazione comunitaria, che, pur prevedendo – come il TRIPs Agreement – distinte regolamentazioni per le denominazioni dei prodotti vitivinicoli (e le bevande spiritose) e per le restanti denominazioni di origine del settore agroalimentare, concede per le une e per le altre protezione non solo contro l’inganno del pubblico, ma anche contro “a) qualsiasi uso commerciale diretto o indiretto di un nome protetto: i) per prodotti comparabili non conformi al disciplinare del nome protetto, oppure ii) nella misura in cui tale uso sfrutti la notorietà di una denominazione di origine o di una indicazione geografica”.
Quest’ultima previsione è particolarmente significativa, perché in pratica appresta a queste denominazioni una protezione anche extra-merceologica contro lo sfruttamento parassitario, assimilabile a quella dei marchi che godono di rinomanza.
In tutti i casi, il parassitismo segna cioè la misura ed il limite della protezione, prendendo anche qui atto del progressivo avvicinamento tra la disciplina delle denominazioni di origine e quella dei marchi, intervenuto non solo sul versante della tutela, ma anche su quello – strettamente correlato al primo sul piano del bilanciamento di interessi – del rilievo primario attribuito alla non ingannevolezza del segno, da sempre fondamentale per le denominazioni di origine e ora divenuto anche la chiave di volta del nuovo diritto dei marchi.
Si è creata una sorta di diritto comune dei segni commerciali: che non significa ovviamente uniformità di disciplina per segni di tipo diverso, ma certamente esistenza di un denominatore comune tra essi.
Marchi e contraffazione sul web: i pure players e il caso cinese
Anche per il settore agroalimentare il web rappresenta una grande opportunità, per commercializzare e prima ancora per far conoscere a una platea più ampia e potenzialmente estesa a tutto il mondo i prodotti di qualità ed i loro segni distintivi, ma anche una grande minaccia.
Particolarmente grave è il fenomeno rappresentato dai “pure players”, ossia dai soggetti che non hanno un negozio reale, ma vendono soltanto attraverso la rete Internet, con l’inevitabile corollario della difficile identificabilità di essi e quindi delle problematiche attinenti al potere di controllo (e alla correlativa responsabilità) degli Internet Service Provider (ISP) sul contenuto degli annunci pubblicati.
Emblematica sotto questo profilo è la situazione del mercato cinese, dove i nostri prodotti agroalimentari stanno riscuotendo un crescente successo e dove tanto le opportunità che le minacce assumono, già sul piano quantitativo, una portata notevolissima, in un Paese i cui gli utenti web superano di gran lunga l’intera popolazione degli Stati Uniti e oltre duecento milioni di “navigatori” acquistano regolarmente prodotti attraverso la rete Internet.
Se è vero infatti che la responsabilità degli ISP è regolamentata dalla Direttiva n. 2000/31/C.E. (attuata dall’Italia con il D.lgs. n. 70/2003) con una disciplina di favore rispetto a quella generale degli intermediari, è però anche vero che l’evoluzione della giurisprudenza comunitaria ha portato a riconoscere a carico dell’ISP non solo una responsabilità per le violazioni alle quali abbia attivamente cooperato o che non abbia fatto cessare una volta reso edotto dell’esistenza delle stesse, ma anche un onere di attivarsi per la prevenzione di ulteriori illeciti.
Parallelamente anche in Cina, l’art. 23 delle Regulations on the Protection of Rights to Information Network Communication prevede sì la regola del c.d. safe harbour, per cui la piattaforma online che, a seguito della segnalazione del titolare, elimina il link al prodotto contraffattorio non sarà tenuta al risarcimento dei danni, ma prevede un’eccezione a questa regola in tutti i casi in cui il titolare del diritto violato dimostri che l’ISP era a conoscenza o comunque avrebbe dovuto essere a conoscenza di tale attività contraffattoria: per avere un’idea del fenomeno, basti pensare che nel solo anno 2013 Alibaba aveva rimosso 7 milioni di prodotti contraffatti in vendita sulla sua piattaforma.
Anche in questo caso la giurisprudenza si era inizialmente mossa in modo coerente, con una famosa decisione del 2011 resa dalla Prima Corte Intermedia di Shanghai, relativa alla violazione di un marchio di un’impresa coreana effettuata attraverso la piattaforma online Taobao, riconoscendo in capo a quest’ultima un vero e proprio obbligo di attivarsi per prevenire la commissione dell’illecito. Gli sviluppi ulteriori della giurisprudenza cinese non si sono tuttavia dimostrati pari alle attese suscitate da questa pronuncia.
Contraffazione dei marchi sul web: gli strumenti per difendersi
La situazione è invece molto migliore nel nostro Paese, nel quale vanno segnalati anche gli interventi operati dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e dal Garante delle Telecomunicazioni.
La prima è infatti sempre più attiva nella repressione dei siti che offrono sistematicamente prodotti-copia, inquadrati nelle pratiche commerciali sleali ed ingannevoli e quindi oscurati (ovviamente limitatamente all’Italia) a mezzo della Polizia Postale.
La seconda ha invece varato un regolamento che prevede una procedura semplice, economica e veloce (specie nei casi che presentano motivi di urgenza) per la rimozione dalla rete dei contenuti che violano diritti d’autore altrui.
Per fronteggiare in modo efficace questi fenomeni, una possibile soluzione è probabilmente quella di intraprendere azioni giudiziarie “di gruppo” dei produttori e dei Consorzi vittime della copiatura, attraverso una sorta di class action diretta ad ottenere provvedimenti giudiziari dotati di efficacia pan-europea e, soprattutto, ad ampio spettro, ossia riferiti a tutti o quasi tutti i cloni realizzati da un singolo imitatore, in modo da rendere non più conveniente per lui insistere nella sua illecita attività.
Operazioni di questo tipo sono concepibili in tutti i settori, purché vengano precedute da un serio lavoro sia di impostazione giuridica, sia di intelligence, ed anzitutto di monitoraggio mirato, volta a ricostruire quanto più possibile la filiera dei falsi e i cluster della contraffazione, identificando i soggetti maggiormente coinvolti e le basi dei falsificatori (e possibilmente anche i loro conti correnti).
Agroalimentare e DOP/IGP: i passi per armonizzare le leggi internazionali
Il progressivo avvicinamento tra la disciplina delle denominazioni di origine e quella dei marchi, si manifesta non solo sul versante della tutela contro ogni forma di parassitismo, ma anche su quello – strettamente correlato al primo sul piano del bilanciamento di interessi – del rilievo primario che, come già abbiamo ricordato, viene attribuito alla non ingannevolezza del segno, da sempre fondamentale per le denominazioni di origine e ora divenuto anche la chiave di volta del nuovo diritto dei marchi.
Questo duplice ravvicinamento sembra anche indicare una possibile strada per l’armonizzazione della disciplina a livello internazionale, creando le condizioni per il superamento dell’attuale divaricazione tra la posizione degli Stati europei e quella dei Paesi extraeuropei, in special modo americani ed asiatici.
Già in occasione del Congresso mondiale di AIPPI (Associazione Internazionale per la Protezione della Proprietà Intellettuale) tenutosi a Gőteborg nell’ottobre 2006 venne approvata una Risoluzione che prospettava appunto il divieto dell’inganno del pubblico e quello dello sfruttamento abusivo della reputazione commerciale come linea-guida per risolvere, anche a livello internazionale, i frequenti conflitti tra marchi e denominazioni di origine.
Ed è estremamente significativo che questa proposta avesse raccolto i voti favorevoli anche dei delegati nord-americani, indicando quindi non solo un possibile percorso di armonizzazione, ma anche una strada praticabile per dirimere questi conflitti, in particolare sul web, già sulla base della disciplina vigente.
Le opportunità per enti e Consorzi dal Codice della Proprietà Industriale
Inoltre, le modifiche del Codice della Proprietà Industriale introdotte già dalla riforma del 2010 appaiono idonee anche a consentire anche un legittimo sfruttamento dei valori insiti nei nomi geografici “significativi”, in particolare attraverso la concessione di licenze.
Le nuove disposizioni permettono infatti sia ai Consorzi di tutela delle denominazioni d’origine, sia agli enti pubblici territoriali di utilizzare al meglio i nomi geografici e gli altri simboli legati al territorio come strumento per valorizzare le esternalità positive legate alla fama del territorio medesimo, non solo vietando ogni forma di free-riding e di sfruttamento parassitario di essa, ma anche, in positivo, monetizzando questa fama, in particolare concedendo questi segni in uso a imprese operanti sul territorio.
Naturalmente, le disposizioni impongono a queste imprese limiti precisi per evitare che i segni stessi divengano fonte di inganno ma incentivandone l’uso come volano per lo sviluppo di iniziative localizzate nella propria area territoriale.
Il tutto, per promuovere, anche in un’ottica di valorizzazione territoriale, un uso attivo di tali segni in relazione a prodotti o servizi anche diversi da quelli “tipici” per i quali gli stessi vengono utilizzati ed in primis per imprese radicate sul territorio, anche con finalità turistiche.
Non va infatti dimenticato che il primario interesse dei soggetti legittimati all’uso di una denominazione di origine/indicazione geografica è quello di promuovere il segno in questione, ampliandone il più possibile la stessa reputazione (e quindi il valore e la capacità attrattiva), esattamente come avviene per i titolari dei marchi d’impresa individuali o collettivi.
Ed è innegabile che detto obiettivo possa essere raggiunto anche mediante un uso riferito a prodotti/servizi totalmente differenti da quelli per cui la denominazione gode di tutela diretta (ivi comprese attività di vero e proprio merchandising), anche per far beneficiare altre attività del territorio sul mercato internazionale.
Il tutto, anche sfruttando la nuova disciplina comunitaria, posto che l’art. 45 del Reg. 1151/12 stabilisce espressamente che i “gruppi” (definizione comunitaria del ruolo dei consorzi) tra le altre cose, possono adottare “provvedimenti volti a migliorare l’efficacia del regime” (efficacia migliorabile, per definizione, anche tramite un rafforzamento della reputazione del segno sul mercato) nonché “misure per la valorizzazione dei prodotti”.
Conclusioni
Quando le imprese sanno valorizzare la country image anche nel contesto della loro corporate image e, correlativamente, le istituzioni pubbliche, ciascuna nelle proprie competenze, utilizzano gli strumenti giuridici che l’ordinamento già oggi mette a loro disposizione per consentire alle imprese di beneficiare e in pari tempo di contribuire alla country image, allora si può innescare una spirale virtuosa, nella quale le diverse eccellenze del nostro Paese – eleganza, cibo, cultura, moda, design, ma anche ricerca, qualità, innovazione – possono sostenersi vicendevolmente.
In questa chiave, sarebbe decisivo impostare seri progetti di registrazione e valorizzazione da parte degli enti territoriali di marchi aventi ad oggetto elementi grafici distintivi riferiti al patrimonio culturale, storico, architettonico e ambientale del relativo territorio e la collaborazione con i consorzi di tutela delle DOP e IGP.
Ne seguirebbe lo sviluppo di operazioni di licensing mirato e soprattutto di co-branding con le imprese industriali di eccellenza del territorio e i diversi operatori del comparto turistico, in modo da presentare insieme sui nuovi mercati, anzitutto dell’Asia, le eccellenze italiane dei diversi settori, promuovendole insieme, anzitutto sul web.
Naturalmente, anche in questo caso, andranno fatti salvi i diritti consolidati di terzi, anche solo all’uso in funzione non distintiva di questi segni: anche se non si può escludere che una mutata percezione del pubblico possa comportare la decadenza di questi diritti o consentirne diverse forme di sfruttamento in funzione distintiva.
La chiave di volta, ancora una volta, sarà rappresentata dalla percezione del pubblico, che è l’elemento decisivo sia per stabilire se un segno è tutelabile, sia per delimitarne l’ambito di tutela, in piena coerenza con le indicazioni che vengono dal diritto comunitario.
Tutto questo delinea quindi un nuovo equilibrio tra esclusive, concorrenza e contratti, nel quale la protezione può essere riconosciuta solo a ciò che davvero questa protezione richiede, nella consapevolezza del fatto che le norme sono chiamate a disciplinare realtà concrete e che la giustificazione di esse è strettamente connessa con l’esperienza umana di queste realtà.
Una prospettiva, che potremmo definire giusnaturalistica, di adeguamento del diritto alle relazioni interpersonali della vita reale, che sempre di più ha nel mondo digitale una sua componente decisiva.