Durante la pandemia il tema del ruolo delle Big Tech nella didattica a distanza (DAD) è stato sollevato più volte. Molte università italiane hanno fatto ricorso a strumenti di videoconferenza come Microsoft Teams, Google Meet e Zoom.
L’uso di questi strumenti per finalità didattiche ha acceso i riflettori sui rischi di trattamento illecito dei dati personali nell’ambito delle piattaforme che fanno capo alla galassia GAFAM (acronimo che sta per Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft) delle Big Tech americane.
Regolamento ePrivacy: ambito di applicazione, ruolo delle autorità e sanzioni
In particolare, i nodi sono venuti al pettine quando la Corte di Giustizia con la sentenza 16 luglio 2020 C-311/18 (Schrems II) ha invalidato la decisione di esecuzione (UE) 2016/1250 sullo scudo UE-USA per la privacy, determinando in via generale l’illiceità del trasferimento dei dati personali dall’Unione Europea agli Stati Uniti.
Le piattaforme open source rappresentano un’alternativa
Il problema si pone per l’università come per la scuola.
La dipendenza dalle piattaforme americane appare ancor più sorprendente alla luce del fatto che esistono soluzioni basate su software open source che possono essere gestite in autonomia dalle istituzioni formative. Due esempi: la rete nazionale a banda ultralarga dedicata alla comunità dell’istruzione e della ricerca ideata e gestita dal Consortium GARR, un’associazione senza fini di lucro fondata sotto l’egida del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, ha messo a disposizione di scuola e università un ventaglio di strumenti per i servizi di videoconferenza e il Politecnico di Torino ha fatto leva sul software a codice aperto Big Blue Button per erogare didattica a distanza.
Nonostante studi (vedi Copyrightblog e OpinioJurisInComparatione), articoli (vedi Roars, Didattica blende, Università di Pisa e qui) e prese di posizione pubblica (vedi Infolet e Aiucd) abbiano sollecitato i decisori politici a una soluzione alternativa all’uso delle piattaforme dei giganti americani, la situazione di dominio di queste ultime appare, dopo un anno e mezzo di pandemia, immutata.
I fatti che hanno contribuito a mantenere lo status quo
Alcuni fatti non hanno contribuito a cambiare la situazione.
a) La reazione del Garante per la protezione dei dati personali è stata finora estremamente timida (per non dire: timorosa). Si vedano da ultimo gli accenni rinvenibili nella relazione annuale.
b) L’inerzia del Governo e in particolare del Ministero dell’Università e della Ricerca.
c) Le grandi piattaforme commerciali hanno già da tempo preso il controllo di alcune infrastrutture fondamentali delle università italiane, a cominciare dalla posta elettronica. Insomma, il terreno era stato diffusamente arato e reso fertile. Le istituzioni universitarie locali e centrali non solo non hanno fatto niente per contrastare il fenomeno, ma lo hanno (più o meno) consapevolmente alimentato.
Dalla posta elettronica all’editoria: una dinamica che si ripete nella DAD
L’esempio della posta elettronica è paradigmatico. Basti pensare a Google. Quando un’università sceglie di dismettere il proprio servizio di email per far leva su Gmail, significa consentire al titano di Mountain View di penetrare nelle proprie infrastrutture con un cavallo di Troia dove alberga un pacchetto dei servizi complementari come Calendar, Drive, Docs e, appunto, Meet.
Consegnarsi mani e piedi a grandi piattaforme commerciali oligopolistiche non innesca solo una classica situazione di dipendenza tecnologica ed economica, ma pone altresì un problema di protezione dei dati personali che si riflette sull’autonomia dell’università e delle sue componenti (docenti, studenti e personale amministrativo).
Il problema non è rappresentato solo dalla certezza di finire sotto lo sguardo invasivo della National Security Agency (NSA) o di qualche altra agenzia di spionaggio statunitense, ma anche dall’influenza che le piattaforme commerciali sono in grado di esercitare sull’evoluzione dell’università.
La dinamica che ha caratterizzato, da ultimo, il ricorso alle grandi piattaforme commerciali replica, infatti, quanto già avviene da anni nel campo dell’editoria e delle banche dati scientifiche.
L’editoria scientifica è sempre più concentrata nelle mani di poche entità commerciali, le quali dei tradizionali editori non hanno più niente. Queste entità si sono trasformate in imprese di analisi dei dati, spesso nel controllo di fondi speculativi di investimento, che traggono la loro forza dal delirio valutativo-bibliometrico che impera nella ricerca scientifica e nell’accademia. Com’è stato sottolineato di recente, tali imprese nel concedere alle università il solo accesso (e non la proprietà) ai contenuti delle proprie banche dati hanno soppiantato le biblioteche, ridotte alla funzione subalterna di mere dispensatrici di accesso temporaneo a un sapere posseduto e ordinato altrove secondo logiche e algoritmi opachi.
Le banche dati si trovano nei cloud controllati dalle imprese di information analytics le quali sorvegliano e profilano il comportamento dei fruitori (in primo luogo, docenti e ricercatori), al fine di prevedere e, soprattutto, di orientare la ricerca del futuro.
Non a caso chi ha studiato attentamente il fenomeno ha messo in evidenza che le piattaforme commerciali come Microsoft puntano a colonizzare tutti i servizi relativi alle diverse fasi che portano dalla ricerca alla pubblicazione e divulgazione di risultati dello studio.
Standard chiusi, proprietà intellettuale e misure tecnologiche facilitano la concentrazione di potere, riducendo la concorrenza, frammentano artificiosamente i mercati e catturano in una morsa duratura (c.d. lock-in) i fruitori dei servizi.
Le mani delle piattaforme DAD sulla didattica
Le grandi piattaforme della galassia GAFAM ripropongono per la didattica universitaria il modello commerciale sperimentato con successo nella colonizzazione di altre infrastrutture digitali strategiche come la posta elettronica e le banche dati scientifiche.
L’impatto culturale di questa dinamica sarà ancora più profondo di quello che ha determinato il mutamento della natura della ricerca.
La gran parte degli studenti universitari ignora la realtà qui descritta o ne coglie solo una piccola porzione. Il che è facilmente spiegabile con il fatto che scuola e università non insegnano a guardare criticamente all’evoluzione delle tecnologie digitali e di Internet.
In un mondo accademico sempre più apatico e narcotizzato, dove i professori si percepiscono per lo più come travet o come “entrepreneurial scientist”, gli spazi di uso pubblico della ragione e, quindi, di libertà e autonomia si riducono drammaticamente.
Si tratta di un circolo vizioso. Gli studenti ignorano perché i docenti non insegnano a guardare criticamente alla dimensione digitale dove si esplica e si esplicherà, anche quando la pandemia da Covid-19 sarà finita, una parte importante della didattica.
In conclusione
Per evitare la definitiva affermazione della “università delle piattaforme” occorre mettere mano a diverse contromisure, note a chi conosce la materia.
a) Occorre collocare al centro dell’insegnamento scolastico e universitario l’analisi critica del controllo delle infrastrutture di comunicazione del sapere.
b) Aggredire a monte il potere di monopoli e oligopoli. Il che si traduce innanzitutto in interventi normativi sull’interoperabilità, sulla proprietà intellettuale e sulla valutazione della ricerca e della didattica, nonché in applicazioni tempestive e incisive della normativa sulla protezione dei dati personali.
L’agenda politica è scritta da tempo e riguarda un pezzo fondamentale della democrazia: la scuola e l’università. Manca la volontà, a livello europeo e italiano, per attuarla.